Il veleno del serpente

A partire dal fortunatissimo Il nome della rosa, l’esperienza narrativa di Umberto Eco si è sviluppata secondo un modello costante e del tutto peculiare. Vi è sempre una storia molto avventurosa, che comprende spostamenti, costumi esotici nello spazio o nel tempo, misteri da chiarire, cioè enigmi posti ai personaggi e al lettore, e risolti di solito solo nel colpo di scena che conclude il libro o di poco precede la sua chiusa. La narrazione è ampia, e dettagliata, comprende ricche citazioni, descrizioni dettagliate, a volte illustrazioni anch’esse poste fra virgolette. Benché l’espressione del narratore sia in genere piana, senza quel carattere di gioco linguistico che caratterizza una linea importante della letteratura novecentesca, questi inserti la complicano, la frammentano, traendone una capricciosa galleria di linguaggi. Vi è sempre un protagonista ben definito, cui è affidato il compito di risolvere il mistero che lo coinvolge. Talvolta, ma non sempre, in lui intuiamo una proiezione narrativa dell’autore, anche perché spesso l’avventura parte nelle terre di origine di Eco. In genere il punto di vista del romanzo è oggettivante, coglie i personaggi dall’esterno; ma altrettanto frequentemente in questi testi compaiono inserti in prima persona. È evidente la fascinazione che Eco prova per la narrativa popolare ottocentesca, per autori come Sue, Salgari, Hugo, soprattutto Dumas padre. Ma questa caratterizzazione stilistica è giocata con assoluta consapevolezza, ancora come una rete di citazioni. In realtà i romanzi di Eco si possono leggere sempre almeno a due livelli (come lui stesso ha teorizzato per la letteratura in generale): godendosi la trama, i colpi di scena e le atmosfere gotiche o esotiche; oppure decifrando la trama fittissima di citazioni, riferimenti, imitazioni, pastiches che egli allestisce con straordinaria abilità e cultura sopra questo telaio.
Questa stesse caratteristiche valgono anche per il suo nuovo romanzo, Il cimitero di Praga. Lo si può leggere come la narrazione di un’avventurosa esistenza marginale che scorre fra Torino, Palermo e Parigi sullo sfondo del nostro Risorgimento, oppure come la complessa messa in racconto di torbidi materiali ottocenteschi che pretendono di mostrare il risvolto “nero” dell’Unità d’Italia, di certi aspetti del mondo cattolico (i gesuiti, innanzitutto) della massoneria e dell’ebraismo. Sono testi disgustosi e grotteschi, ignobili diffamazioni; ma sono autentici, non certo perché vi sia alcuna verità in essi, bensì perché sono stati effettivamente prodotti e diffusi al tempo. La messa in racconto intende proprio mostrarne la falsità, cioè la genesi truffaldina, la scrittura mercenaria, la carica d’odio che li motiva, la dipendenza da quegli stessi modelli narrativi del romanzo d’appendice ottocentesco che paradossalmente (ma certo consapevolmente) somiglia assai al medium espressivo usato dallo stesso Eco.
La storia è ricca di dettagli e vicende secondarie, in modo da realizzare il percorso a enigmi caratteristico del modello letterario, ma nella sostanza è semplice. Un ragazzo nato in una nobile famiglia piemontese (il padre patriota e presto scomparso, il nonno reazionario), dopo un subitaneo e immediatamente respinto innamoramento per una ragazza ebrea del ghetto di Torino che resta la sola tentazione sentimentale o erotica della sua vita, diventa agente provocatore, spia e falsario di documenti per l’amministrazione piemontese. Fa arrestare i suoi compagni di università, si unisce alla spedizione dei Mille per uccidere Ippolito Nievo. Poi, denunciato, si rifugia in Francia dove lavora per la polizia politica, ancora provocando e denunciando innocenti. Si guadagna da vivere anche falsificando documenti privati e politici, volta volta pro e contro massoneria e gesuiti, è coinvolto in un complicato caso di travestimenti e cambi di identità. Gradualmente si specializza in libelli antiebraici. Il suo capolavoro è l’invenzione (secondo il modello antimassonico del Giuseppe Balsamo di Dumas) di una pretesa riunione di rabbini nel famoso cimitero ebraico di Praga (di qui il titolo), dove essi formulerebbero i loro piani di conquista e sfruttamento del mondo intero. Da questa sua invenzione, molte volte riciclata e riscritta, venduta infine ai servizi segreti della Russia zarista, proverrebbero in definitiva gli infami Protocolli dei Savi di Sion che sappiamo messi in circolazione proprio dai servizi segreti russi all’inizio del Novecento (ma l’azione romanzesca di Eco si conclude qualche anno prima). In sostanza, il romanzo finge la biografia del primo autore dei Protocolli, mostrandolo immerso nel mondo confuso e criminale di congiure e controcongiure, provocazioni e controprovocazioni della politica europea nella seconda metà dell’Ottocento. Il testo non ha ambizioni storiche, va preso per quella che è, cioè una fantasia letteraria, anche se Eco rivendica che tutto quel che racconta, salvo i dettagli sui personaggi inventati come il protagonista, non è inventato da lui. In particolare sono autentici (cioè davvero diffusi in quel tempo) i deliri antimassonici, antigesuiti e in particolare quelli antisemiti che sono inseriti abbondantemente nel testo. Materiali, va detto, offensivi e ripugnanti non solo per gli ebrei e gli altri che ne sono diffamati, ma per qualunque persona civile. E materiali, va anche immediatamente ribadito, che il protagonista del romanzo produce con convinzione e maligno entusiasmo, ma che l’autore non solo non condivide ma condanna nel modo più chiaro. Se l’oggetto del romanzo è la biografia del loro immaginario autore, il suo senso sta invece nel mostrare la falsità e l’origine grottesca e criminale di tale produzione, nell’esplorare la piccineria, la meschinità, la vera e propria follia della psicologia di chi li ha prodotti. Non si tratta di una teoria dell’antisemitismo, naturalmente, che non potrebbe rientrare in questo genere romanzesco; nel testo non si trovano le ragioni per cui l’antisemitismo si affermò potentemente nell’Europa liberale, oltre che nelle monarchie autoritarie, fino al culmine del nazismo. Sarebbe sbagliato cercarvi una genealogia della Shoah. Certo, si mostrano i nessi dell’antisemitismo col vecchio antigiudaismo cristiano, coi nazionalismi e coi socialismi, si esemplifica l’uso che ne fecero polizie e servizi segreti come alibi e oggetti sostitutivi, ma il tema è un altro, quello della mentalità individuale di un volonteroso produttore di quel che uno scrittore intossicato da queste storie avrebbe chiamato cinquant’anni dopo “bagattelle per un massacro”.
Pur essendo un romanzo pieno di materiali razzisti e antisemiti, dunque, Il cimitero di Praga vuole opporvisi e denunciarli, coerentemente a tutta la storia intellettuale di Eco. È una narrazione tutta nera, in cui sostanzialmente non vi sono figure positive se non estremamente marginali e tutti imbrogliano tutti, tutti sono in malafede, tutti mentono, falsificano, uccidono, si ubriacano, si prostituiscono, come in un girone infernale, il protagonista è così falso e incosciente da ingannare anche se stesso sulla propria identità e sulle proprie azioni e intenzioni, che comunque sono tutte rigorosamente immorali. Di più, è anche incapace di avere qualunque rapporto con gli altri, qualunque amicizia, qualunque amore o perfino attrazione erotica o vita sessuale, interessato com’è solo agli imbrogli di cui vive e al cibo che per lui è la sola gratificazione. È un personaggio insomma così esagerato, così negativo, così grottescamente malvagio da riuscire quasi simpatico. Un effetto boomerang che rischia di estendersi ai materiali diffamatori esposti nel romanzo: certo esibiti per condannarli, per storicizzarli, ma forse capaci anche dietro le teche di una narrativa fra molte virgolette di sprigionare i loro veleni. Questo è il limite che impedisce a un lettore ebreo di divertirsi con le criminali avventure del protagonista; l’angoscia di vedere un cobra dipinto di colori buffoneschi eppure ancora ben velenoso e omicida.

Ugo Volli, semiologo