Finzioni e santificazioni
«Parli, altrimenti la metteranno in croce!» – sono le parole che suor Pasqualina rivolge a Pio XII nella fiction televisiva «Sotto il cielo di Roma». Il racconto della deportazione degli ebrei a Roma il 16 ottobre 1943 – racconto più o meno credibile (si pensi alla improbabile scena alla stazione Tiburtina in cui Myriam si getta verso il vagone del padre e viene respinta) – corre parallelo accanto alla descrizione della figura controversa di Pio XII.
E qui l’astuta regia mette in scena un papa tormentato, prudente e circospetto, sovrastato dalla immagine diabolica di Hitler che – così preannuncia un filmato nella fiction, quasi una visione del papa – si distruggerà da sé. Basterà agire con oculatezza. Per non provocare altre vittime. E poi non possono sfuggire le parole che Pacelli, quasi all’inizio, pronuncia per giustificare la sua condotta durante quegli anni così bui per la chiesa: «non posso prendere le parti di un popolo contro un altro». Come se scomunicare Hitler – ma perché non l’ha fatto? – e aprire bocca per denunciare i crimini del nazismo davanti al mondo fosse stato prendere le parti di un popolo – del popolo ebraico e non di quello tedesco?
La fiction va considerata appunto come una qualsiasi altra finzione. Eppure molto ci sarebbe da dire sull’impostazione complessiva. Ad esempio: che fine hanno fatto i fascisti? Nel film compaiono sì e no un paio di volte. Passano invisibili in macchina nella parte dei donnaioli. E nel rastrellamento l’unico fascista è anzi un buono. Il giudizio che viene suggerito sulla resistenza e sui partigiani è che si tratta di uno sparuto gruppo di piccoli intellettuali che leggono libri inservibili (ad esempio Petrarca), che procurano guai a sé e agli altri e che, alla fin fine, se non ci fossero stati, sarebbe stato meglio. Via Rasella e soprattutto le Fosse ardeatine, nella seconda parte del film, non meritano che un piccolo cenno al margine. Il messaggio è chiaro: la Resistenza avrebbe fatto poco o nulla per gli ebrei. Molto di più avrebbe fatto la chiesa, molto di più avrebbe fatto, per quanto non visto e non sentito, Pio XII che, nelle sue stanze pontificie, tormentandosi, provava a trattare con i tedeschi.
C’è anche di più: alcuni tedeschi, malgrado tutto, possono essere redenti. Il generale Stahel, che durante il film guarda il rosario nel cassetto, è il tedesco che potrebbe un domani, con la magnanimità della chiesa, perfino essere perdonato. E mentre la fiction corre verso una riconciliazione totale e totalizzante, torna l’immagine di papa Pacelli davanti ad un crocifisso. Di nuovo il messaggio è chiaro: Pio XII ha portato la croce non solo durante il nazismo, ma anche dopo, per via del suo pervicace silenzio, non un atto ignominioso per lui e per l’istituzione ecclesiastica, ma anzi l’unico atto possibile. È dunque tempo di santificarlo. A questa santificazione, che è e resta incomprensibile, ingiustificabile e immotivata, mira tutta la fiction.
Non certo a narrare l’unica crocifissione di quel tempo: la Passione di Israele sotto Adolf Hitler. Perché questa fa solo da sfondo. Anzi, con un gesto consueto, che ha scandito la storia della chiesa per secoli, anche questa volta, all’insegna della teologia della sostituzione, viene espropriato il popolo ebraico del suo martirio, mentre Pio XII, con il carico della croce, si prepara ad essere santificato.
Non saranno immagini casuali, nella seconda parte del film, quelle degli ebrei che, nascosti qui e là in chiese e monasteri della capitale, vestono gioiosamente i panni di preti e suore… un auspicio di conversione. D’altronde l’impulso alla conversione non cessò neppure finita la guerra; il Vaticano seguì una politica molto rigida sulla restituzione degli orfani ebrei e andarono deluse le richieste di restituzione di almeno 8000 bambini ebrei sopravvissuti nelle istituzioni cattoliche europee ed educati cattolicamente.
La fiction è una finzione in vista della santificazione di Pio XII e di una celebrazione della chiesa che vuole così autoassolversi. Resta però indelebile e incancellabile il silenzio di Pacelli. Il papa che, dopo molti anni trascorsi in Germania durante la Repubblica di Weimar, aveva scelto il «male minore», il paganesimo nazista, per arginare il vero nemico, il bolscevismo, fu forse più antiebraico di quanto lo fosse la curia romana dei suoi tempi e non sembrò mai particolarmente colpito dal martirio del popolo ebraico. Lo dimostra il suo silenzio che continuò – ma perché mai? – anche dopo il 1945.
C’è da chiedersi se alla chiesa giovino fictions e finzioni di questo genere che possono forse edulcorare temporaneamente la storia, ma che non sono la strada giusta per un ripensamento critico e costituiscono anzi la scorciatoia di una – indebita – appropriazione della Shoah.
Donatella Di Cesare