Al lavoro per garantire la continuità ebraica
Prima di scrivere questa nota ho riletto i numerosi e autorevoli interventi, quelli recenti ma anche quelli più lontani, sulle proposte di modifiche statutarie elaborate dall’apposita Commissione di cui ho fatto parte e via via messe a punto a seguito dei suggerimenti pervenuti. Ho così potuto costatare che a mano a mano si è andato consolidando un consenso crescente che lascia ben sperare in un confronto costruttivo, anche se serrato, nel Congresso. Ci sono tuttavia ancora alcuni contrari all’ipotesi stessa di modifica dello Statuto e favorevoli solo a pochi modesti aggiornamenti.
Altre valide osservazioni critiche sui singoli punti delle modifiche proposte – la Commissione non ha la pretesa di essere infallibile – potranno essere considerate durante la discussione finale e quindi accolte, se non più formulate in maniera generica ma accompagnate da proposte concrete di emendamenti, in sintonia con le altre parti dello Statuto stesso. Finora l’attenzione si è concentrata soprattutto su tre aspetti della proposta: il sistema elettorale delle due Comunità maggiori; il nuovo assetto dell’Unione con l’eliminazione del Congresso quadriennale e la sua sostituzione con un Consiglio di 59 membri; l’introduzione di un termine di durata all’ufficio del rabbino capo.
Molto è stato detto e scritto su questi punti. Sul primo punto aggiungo solo che tutti sono d’accordo, a Roma e a Milano, sull’opportunità di introdurre il voto per lista con l’assegnazione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti da ciascuna lista.
Gli altri dettagli, niente affatto marginali, quali l’indicazione del candidato presidente, il premio di maggioranza, la soglia di sbarramento, il numero minimo e massimo di candidati nelle liste ecc., tendono a garantire la trasparenza, le minoranze, la libertà di scelta e di autodeterminazione degli elettori e insieme le esigenze di funzionalità del Consiglio e possono comunque essere aggiustati e migliorati nei singoli regolamenti elettorali delle Comunità.
Sul secondo punto, le maggiori perplessità riguardano il funzionamento di un Consiglio allargato a 59 componenti, il suo costo e il peso relativo delle rappresentanze delle Comunità maggiori rispetto a quelle delle piccole e medie. Per coinvolgere tutte le 21 Comunità nella gestione dell’Unione, come auspicato, la Commissione non ha saputo trovare una soluzione diversa dall’ampliamento massiccio del Consiglio, ma non escludo che si possa escogitare un’alternativa; dovrà soddisfare sia la richiesta delle Comunità di Milano e soprattutto di Roma, di mantenere il loro peso nel futuro Consiglio dell’Unione in misura non inferiore a quello attuale nel Congresso, già adesso inferiore proporzionalmente alla consistenza della loro popolazione, sia l’esigenza di estendere la responsabilità della direzione dell’Unione al maggior numero di Comunità, se non a tutte. Per rendere effettivamente possibile la partecipazione delle piccole e medie Comunità, queste potranno delegare invece del rispettivo presidente, già oberato da tanti impegni, un loro rappresentante permanente al Consiglio dell’Unione e per facilitare il funzionamento di un Consiglio così numeroso, questo potrà organizzare la propria attività in commissioni.
Quanto alla spesa, il costo di tre-quattro riunioni all’anno del Consiglio non è superiore a quello attuale per l’organizzazione di un megacongresso quadriennale. I rapporti tra la dirigenza laica delle Comunità e i loro rabbini e maestri sono storicamente sempre stati difficili, sia in Italia sia altrove in Europa, come documentato da qualunque buon libro di storia ebraica nell’epoca moderna.
Oggi ci troviamo in Italia in una situazione particolarmente critica: tante Comunità sono prive di un rabbino soprattutto perché numericamente esigue, altre devono ricorrere a rabbini di formazione straniera, sia per l’insufficiente numero di nuovi rabbini laureati dal Collegio rabbinico italiano e dalle Scuole rabbiniche di Torino e Milano, sia perché questi ultimi difficilmente accettano incarichi in Comunità prive di scuola ebraica dove far studiare i figli.
Da più parti si richiede pertanto all’Unione di istituire un servizio centralizzato di rabbini che possa aiutare regolarmente e con cadenza costante le Comunità prive di rabbino, sia per i servizi di culto, sia per l’educazione dei bambini e dei ragazzi.
Ogni Comunità dovrebbe poter avere ogni domenica un Maestro per insegnare ebraismo e cultura ebraica ai giovani, pochi o molti che siano, e anche ai meno giovani. La durata a termine dell’ufficio di rabbino capo è solo una prima proposta di modifica, che non vuole sminuire il ruolo dei nostri Maestri. Lo scopo ultimo è invece quello di potenziare l’Assemblea rabbinica italiana che dovrebbe diventare l’organismo centrale di coordinamento effettivo di tutti i rabbini; per questo pensiamo anche all’istituzione di un Beth Din autorevole, a livello nazionale (eventualmente con sezioni staccate periferiche per i temi di minor rilievo) e al riparo da possibili pressioni locali, che abbia competenza decisoria su questioni halakhiche, quali ad esempio certificazioni di kasherut, conversioni, divorzi e altro. Mi auguro che i signori rabbini condividano le nostre preoccupazioni e vogliano collaborare per l’elaborazione di una proposta più articolata e completa, perché sentiamo tutti l’esigenza di impegnarci per la continuità dell’ebraismo italiano. I nostri rabbini potranno dare un grande contributo se vorranno ragionare in termini di shelichut per recuperare all’ebraismo tanti dispersi sia nelle grandi sia nelle piccole Comunità, per un ebraismo attivo e inclusivo e non difendere soltanto le attuali posizioni. Prima di terminare, desidero richiamare l’attenzione dei lettori anche su altre importanti proposte: la regolamentazione delle doppie iscrizioni (già attualmente di fatto abbastanza diffuse); il rafforzamento dei poteri dell’Unione in tema di consorzi di Comunità; un’elencazione più completa delle condizioni d’ineleggibilità e d’incompatibilità; la ridefinizione dei compiti dei revisori dei conti e degli eventuali collegi sindacali, in linea con la legislazione vigente; un’apertura, ancorché timida, alle altre organizzazioni ebraiche operanti in Italia.
Certamente le proposte di modifica dello Statuto non risolvono le gravi difficoltà attuali dell’ebraismo italiano: la crisi demografica, il numero crescente di matrimoni misti, l’impoverimento delle risorse intellettuali ebraiche, l’assimilazione diffusa, il ruolo dell’Unione e delle Comunità nel Paese, il rapporto con Israele, le relazioni con la Chiesa eccetera.
Sono temi di vitale importanza, ma non possono essere oggetto di disposizioni statutarie. Lo Statuto deve stabilire i principi e le regole di funzionamento dell’UCEI, delle Comunità e dei loro organi: non può contenere direttive politiche e culturali che devono essere definite di volta in volta dai consiglieri delle Comunità e dell’Unione, eletti ogni quattro anni anche sulla base dei rispettivi programmi.
Leone Paserman, Commissione per la riforma dello Statuto, Pagine Ebraiche, dicembre 2010