Crescere e cooperare, oltre le appartenenze
E’ sempre difficile cucirsi addosso i panni di qualcuno che non si è: non sono un delegato al Congresso e dunque qualsiasi suggerimento, anche il più innocente, rischia di apparire come un’intrusione. Non sono un uomo della strada né, ovviamente, un suo rappresentante (del resto chi si qualifica come tale non lo è mai). Sono un individuo forse “non lontano”, ma “ritirato a casa propria”. Una condizione non solo mia, forse. Da quest’angolo visuale vorrei proporre alcune osservazioni. Vi è la necessità di stabilire una pratica che unifichi il mondo degli ebrei in Italia: non può essere solo questo giornale a rappresentarlo. Per unificare non intendo la creazione di un clima unanimistico, ma una condizione che abbia la percezione delle priorità.
Il problema non è rappresentato solo, e nemmeno prevalentemente, dalla pluralità delle voci, ma soprattutto dalla centralità dei problemi. C’è stata più realtà, più azione su Pagine Ebraiche che non nelle realtà istituzionali, ovvero nei luoghi deputati alla decisione. Non si tratta di chiedere anche per il mondo ebraico che si imponga un “primato del fare”, ma si tratta di lavorare nei settori della cultura e della produzione culturale con maggiore intensità.
Significa, tra l’altro, qualità della didattica, formazione permanente e continuata per gli adulti, un campo dove pure è stato fatto qualcosa, ma su cui occorre insistere con maggiore impegno e convinzione perché una minoranza cresce se, e solo se, ha risorse culturali e se ha una diffusa cultura di base, non solo se ha delle eccellenze.
In ogni caso si tratta di far arretrare altri fenomeni che troppo spesso occupano il centro della scena e consumano molte energie. In breve e per non mandarla a dire: c’è troppo politichese; c’è troppa retorica dell’identità e poca formazione critica; c’è troppo centro e poca periferia; c’è eccessiva visibilità mediatica e scarsa attenzione ai luoghi e alle forme del nuovo disagio sociale; c’è il ritorno di un vecchio paternalismo, con annesso assistenzialismo, e scarsa pratica di welfare. C’è molta gerarchia e poca comunità. Bisogna poi ampliare lo sguardo oltre noi. Ancora una volta consideriamo Pagine Ebraiche.
E’ forse l’unica esperienza che abbia contemporaneamente parlato all’interno – ai molti interni – ma anche non trascurato il fuori; che abbia con costanza affrontato il problema non solo dei molti mondi ebraici dentro il recinto dell’ebraismo italiano tradizionale, ma anche aperto le porte agli ebraismi “altri” presenti oggi in Italia; che abbia percepito che ci sono politiche di settore (il mondo dell’infanzia, i giovani, le forme della comunicazione culturale…) sui cui si gioca il futuro del mondo ebraico italiano; e che abbia capito, infine, che esiste un mondo ebraico europeo con cui si interloquisce e da cui sarebbe bene imparare molte cose. In breve un’esperienza che “è andata in cerca” e “si è messa in ascolto”.
Il mondo ebraico a lungo ha avuto forme molto tradizionali di comunicazione. Oggi occorre pensare per linee diverse, trovare momenti di aggregazione e di lavoro, costruire una rete virtuale di servizi alle persone in cui si mettono in connessione realtà a rischio di fine e realtà più forti, una rete che si esprima anche in occasioni reali di incontro e di esperienze concrete. Una rete che disegna geografie diverse da quelle definite dalle istituzioni e che probabilmente non è tutta dentro il territorio nazionale. Veniamo infine al Congresso. È un luogo dove il confronto porta a dividersi. È nelle cose e non si tratta di drammatizzare. Ma alle volte dalle esperienze vissute occorre imparare. Il precedente Congresso è stato una catastrofe: tre giorni inutili dove le divisioni e soprattutto i preamboli hanno avuto il sopravvento sull’intelligenza.
Non ripetere quell’esperienza sarebbe già un risultato apprezzabile. Per non ripeterla tuttavia non sono sufficienti le buone maniere. Si tratta dunque di inaugurare non solo uno stile di lavoro, ma anche di dare luogo alle forme di crescita che superino le appartenenze. Non so se sia possibile e nemmeno se coloro che arriveranno a Roma il prossimo 5 dicembre abbiano in animo questa percezione. Ma il mondo ebraico – un mondo piccolo – uscirà rafforzato se saprà ragionare in termini di cooperazione, non di supremazia; se saprà rendere le persone cooperative (che non vuol dire unanimi) in nome di un progetto che le riguarda quotidianamente anche nei luoghi dove loro vivono se la loro realtà è quella di Comunità piccole che hanno il problema drammatico del loro continuare ad esistere. In altre parole, quel mondo piccolo uscirà più forte, non se troverà un leader carismatico a cui affidarsi, ma se definirà un gruppo dirigente che riconoscerà delle priorità e si farà carico dei problemi che ha davanti. Ovvero se saprà “farsi piccolo e (se la parola non fosse abusata) umile”.
Misurando prima ancora che le proprie capacità, i propri limiti. E dunque determinato a motivare e a coinvolgere anche chi non c’è, anzi a andare a cercare chi non c’è. Non per trasformarlo, ma per utilizzare anche quella risorsa e, soprattutto, non continuare a perderla.
David Bidussa, storico sociale delle idee, Pagine Ebraiche, dicembre 2010