L’assetto delle nostre Comunità e il tempo dei cambiamenti

L’elaborazione di un nuovo Statuto dell’ebraismo italiano è un’operazione estremamente complessa e delicata, come ben sa chi ricorda il periodo di transizione degli anni Settanta e Ottanta, quando lasciarsi dietro quell’insieme di leggi e regole ormai indicate nel linguaggio comune come legge Falco o come leggi del Trenta sembrava essere una cosa improponibile ed era vissuta in maniera drammatica da alcune delle componenti delle nostre Comunità.
Stupisce quindi che il passaggio a un nuovo Statuto, pur non essendo formalmente un cambiamento di legge ma avendone, per via dei vincoli contenuti nell’Intesa fra Stato ed Unione delle Comunità, un’analoga portata, sia stata così poco discussa da parte degli appartenenti alle singole Comunità. È altrettanto sorprendente che si possa pensare di fare dei cambiamenti radicali in poche ore.
Senza voler entrare nel merito delle varie cose proposte nel testo disponibile per le discussioni al prossimo Congresso, desidero soffermarmi soltanto su un particolare aspetto di quel testo, che cambia radicalmente alcuni punti dello Statuto attualmente vigente, e cioè quello che riguarda sostanzialmente la dirigenza dell’Unione. Alla base delle proposte relative a questo argomento ho motivo di credere che sia preponderante un fatto economico.
I bisogni economici delle Comunità sono molteplici e certamente enormi, perché in molti casi quanto queste riescono a raccogliere dai loro iscritti coprono a mala pena le spese che devono affrontare per mantenere i servizi che sono tenue a fornire: infatti per tradizione e anche a norma dello Statuto attualmente vigente è chiarito che le Comunità devono provvedere al soddisfacimento non solo delle esigenze religiose ma anche di quelle associative, sociali e culturali dei loro iscritti. Certamente, molte cose sono cambiate nel corso del ventennio che è trascorso dalla firma dell’Intesa e dall’approvazione di quel preciso Statuto che si sta pensando di modificare. È indiscutibile che le possibilità economiche assicurate all’ebraismo italiano dalla legge, che permette all’Unione di partecipare alla ripartizione dell’Otto per mille delle entrate dello Stato, hanno reso più consapevoli le Comunità dell’importanza che l’Unione ha per la loro sopravvivenza e sviluppo. Tanto più che questa, in passato legata finanziariamente alle Comunità, non solo ha ingenti entrate in base alla legge ricordata sopra ma inoltre ha saputo assicurarsi altri fondi statali per alcune sue attività (ad esempio i fondi assicurati dalla legge 175 per la tutela del patrimonio storico). Le Comunità vogliono quindi partecipare in modo più attivo sia alle delibere che alle attività dell’Unione e alcune fra le Comunità con un numero di iscritti relativamente basso ritengono di essere attualmente soffocate dalla Comunità di Roma e da quella di Milano. Va tuttavia osservato che la più numerosa fra queste Comunità, genericamente chiamate ormai “piccole Comunità”, ha un numero di iscritti che è sì e no un decimo della meno numerosa delle grandi. Voler modificare l’assetto gestionale riducendo il peso delle due Comunità che da sole rappresentano più dei tre quarti della popolazione ebraica totale è una cosa che è certamente difficile a giustificare, tanto più che alcune di queste Comunità piccole sono spesso inadempienti perché non in grado di fornire servizi ai loro iscritti. L’artificio dell’iscrizione sia nella Comunità d’origine che in quella di effettiva residenza è uno strumento che falsa i dati e copre in maniera che si potrebbe chiamare senz’altro ipocrita delle realtà che non si vogliono ammettere perché in alcuni casi sarebbe normale ipotizzare la chiusura di certe Comunità.
Ovviamente non è facile prendere decisioni in questo senso. La realtà territoriale di alcune delle piccole Comunità è un fatto innegabile perché in alcune città, benché il numero di iscritti sia modesto, l’inserimento delle medesime nel tessuto urbano è tale che la loro presenza è una cosa inequivocabilmente riconosciuta. Talvolta l’esistenza di strutture storiche importanti sul proprio territorio contribuisce al desiderio di voler mantenere la propria identità. In altri casi contributi di notevole importanza in passato nel campo culturale inducono alcune strutture a reclamare un’autonoma continuità. Infine manifestazioni più folkloristiche che culturali ma di indubbio successo prevalgono su certe realtà di fatto.
Ciascuna di queste considerazioni ha sicuramente un peso ma non è certo sufficiente. La presenza di importanti resti storici o artistici non crea una Comunità perché se fosse ammesso questo principio la zona di Venosa, col suo complesso di catacombe ebraiche dei primi secoli dell’era volgare e le sue epigrafi sepolcrali del basso Medioevo, potrebbe indurre i pochissimi ebrei con residenza (fissa e vera) a Potenza a reclamare il diritto di essere una Comunità.
Così pure i pochissimi ebrei di Trani, che non raggiungono usualmente un minian, ma possono vantarsi di avere l’unica struttura esistente in Italia appositamente costruita nel Medioevo e tuttora adibita al culto ebraico, oltre ad avere una costruzione sinagogale coeva utilizzata come museo, potrebbero avanzare la pretesa di essere riconosciuti come Comunità. Il problema posto richiede dunque una valutazione seria e non è possibile applicare delle regole generali perché i singoli casi differiscono l’un dall’altro e vanno accuratamente valutati: è evidente che ci sono delle piccole Comunità che hanno un’attività esemplare ma ce ne sono altre, magari più grandi, che sono carenti e di questo è doveroso tenere conto.
Voler prendere decisioni affrettate non può che creare scompensi e sarebbe una cosa saggia che l’ebraismo italiano nel prossimo Congresso prendesse tempo, fissando un periodo, eventualmente breve (ad esempio un anno), in cui verificare quali sono le soluzioni da proporre, caso per caso, prima di approvare uno Statuto che modifica l’esistente senza valutare adeguatamente tutte le conseguenze di eventuali cambiamenti.
Durante questo periodo di attesa preconizzato sopra si potrebbero studiare le possibilità e le procedure che, utilizzando quello strumento che esiste già nello Statuto attualmente in vigore e che sarebbe auspicabile venisse rinforzato, permettessero ad alcune delle piccole Comunità che si potrebbero definire “virtuali” a fondersi in consorzi che, pur rispettando una forma di autonomia, venga a creare delle entità dotate di una maggiore consistenza numerica ed effettiva capacità gestionale. Al termine di questo periodo si potrebbe effettivamente proporre modifiche di Statuto corrispondenti a realtà operative.
Giacomo Saban, direttore Rassegna mensile di Israel, Pagine Ebraiche, dicembre 2010