Proposte e preoccupazioni sulla via della riforma
Le modifiche allo Statuto saranno il tema principale del prossimo Congresso. Il lavoro preparatorio è stato lungo, forse il coinvolgimento non abbastanza ampio perché in molti non hanno ritenuto di partecipare, ma per quelli che si sono cimentati nel confronto, dobbiamo ammettere che la discussione e stata profonda e, a mio giudizio, fruttuosa.
È naturale che molti temi rimangano aperti, e non è ragionevole la critica che taluno ha rivolto al Consiglio uscente di aver inviato all’assemblea congressuale un testo non preventivamente condiviso con una discussione in Consiglio. Avremmo potuto pure impegnarci di più per raggiungere questo obiettivo, ma sarebbe stato inutile, considerato che nessuno dei Consiglieri uscenti avrebbe potuto votare ed approvare le modifiche; sarebbe stato un lavoro accademico senza nessun risultato utilizzabile. È stato invece più utile inviare al Congresso un testo base, che su diversi argomenti offre più soluzioni lasciando aperta la discussione, evitando che il dibattito sulle modifiche potesse divenire un confronto tra il Consiglio uscente che presentava il suo testo, e il Congresso chiamato ad approvarlo.
È pur vero, però, che alcune problematiche statutarie non hanno trovato soluzioni soddisfacenti: sul precedente numero di Pagine Ebraiche sono stati in diversi a segnalare i temi su cui orientare maggiormente il dibattito.
Ne elenco alcuni: il Consiglio di 59 componenti è troppo numeroso, e in questo modo si darà più potere alla Giunta; la Rabbanut non deve essere mortificata; verrà a mancare quell’occasione di grande discussione che è il Congresso; il sistema elettorale delle due grandi Comunità; il consorzio tra Comunità eccetera.
Vorrei perciò dare il mio contributo su alcuni di questi temi e partirei dalle preoccupazioni riguardo l’effettiva capacità decisionale del rinnovato Consiglio rispetto al Congresso. Credo di non dover tornare sulle critiche che già in molti hanno mosso all’istituto del Congresso come esso è diventato a finire con l’ultimo del 2006. Però mi sforzo di comprendere anche coloro che ritengono utile l’occasione di far incontrare i rappresentanti delle diverse istanze dell’ebraismo nostrano. Assieme alla vicepresidente Claudia Debenedetti e ai delegati di Casale Monferrato e Vercelli, abbiamo presentato la proposta di istituire una Conferenza dei presidenti degli enti ebraici operanti nella penisola, chiamiamole le Ong dell’ebraismo, che si riunirebbero sotto la presidenza dell’Unione almeno una volta l’anno per scambiarsi idee, pensieri e formulare proposte. Altrettanto valida, come soluzione per incontri di ampio respiro, è l’idea dell’amico Yoram Ortona di convocare gli Stati Generali dell’ebraismo italiano, ossia tutti i consiglieri delle Comunità, tutti i rabbanim, tutti i presidenti delle organizzazioni ebraiche, eccetera. Quest’idea che trovo suggestiva ha un maggiore sapore emotivo rispetto a quella che abbiamo proposto, se il fine è quello di soddisfare più la necessità di incontrarsi per scambiarsi sensazioni e idee che suggerire soluzioni, può anche questa diventare una strada percorribile.
Un’altra preoccupazione diffusa è che un Consiglio troppo vasto diventi improduttivo lasciando troppo potere alla Giunta. Non nego che questa preoccupazione sia fondata, per questo, già nell’Assemblea dei delegati del marzo scorso, avanzai la proposta dell’istituzione delle Commissioni del Consiglio. Di commissioni, negli anni scorsi ne abbiamo viste tante e capisco lo scetticismo. La Commissione per lo Statuto ha recepito la mia proposta, che non si ferma alla sola istituzione delle Commissioni, ma prevede anche che il Consiglio abbia un suo regolamento interno. Il regolamento dovrebbe stabilire l’istituzione di almeno quattro commissioni permanenti – le stesse che il Consiglio ha proposto per il prossimo Congresso: Politiche comunitarie, Relazioni esterne, Organizzazione e gestione e Rabbanut. Ciascuna di queste commissioni, formata da una decina di persone, dovrebbe coadiuvare, ma soprattutto concertare con l’assessore di riferimento le attività che questi propone alla Giunta. Al pari del governo che si confronta e trova l’appoggio per la sua azione nelle commissioni parlamentari. Le delibere fondamentali della Giunta dovrebbero essere perciò precedute da un lavoro preparatorio, nel quale, attraverso la competente commissione, il Consiglio esprime il suo ruolo di indirizzo. Con questa innovazione il Consiglio dovrebbe aumentare la sua partecipazione ai processi decisionali e valorizzare la sua funzione.
La mia maggiore preoccupazione, sia sotto il profilo operativo che finanziario è però determinata dall’ampiezza del Consiglio. Condivido perciò le critiche di tutti coloro che ritengono il numero di 59 componenti del Consiglio spropositato. Condivido pure le preoccupazioni di Riccardo Pacifici per una equilibrata composizione del Consiglio. È evidente che il numero di 59 membri nasce dalla necessità di dare il maggior equilibrio possibile e rispondere alle richieste della Comunità di Roma. La proposta della commissione prevede in sostanza che a Roma vadano 21 consiglieri su 56 (esclusi i rabbanim) e a Milano 10 su 56 rispettivamente il 38 per cento e il 18 per cento del Consiglio. Nel Congresso attuale le grandi Comunità dispongono rispettivamente del 45 per cento e del 21per cento, percentuali già inferiori al loro effettivo peso che rispettivamente è del 53 per cento e del 25 per cento. È necessario quindi, se si vuole diminuire il numero totale dei consiglieri agire sulla diminuzione della rappresentanza delle altre Comunità, che sono obiettivamente sopravvalutate. La mia proposta è di fissare a 45 il numero dei componenti il Consiglio portando a 16 componenti la rappresentanza delle Comunità diverse da Roma e Milano. In questo modo la rappresentanza proporzionale di Roma salirebbe al 43 per cento e quella di Milano al 19 per cento. Il sacrificio delle due Comunità maggiori sarebbe contenuto in due punti percentuali ciascuno.
Come si raggiunge questo obiettivo? Raggruppando le otto comunità minori, tutte con una popolazione inferiore alle cento unità in tre diversi collegi elettorali: Vercelli e Casale che eleggerebbero assieme un solo rappresentante; Mantova, Verona e Merano; Parma, Modena e Ferrara, che dovrebbero eleggere due rappresentanti per ciascun collegio. Tutte le altre Comunità dovrebbero eleggere il proprio rappresentante nel Consiglio dell’UCEI. Roma e Milano dovrebbero essere rappresentati dai rispettivi presidenti ed eleggere sette componenti a Milano e 17 componenti a Roma. (L’articolo 41 dello Statuto sarebbe emendato come appare nel riquadro accanto).
Un’altra diffusa preoccupazione è relativa all’organizzazione della Rabbanut e al rapporto tra Comunità e rabbino capo. Questa tematica ha molte implicazioni, e la proposta di modifica investe solo un aspetto del problema, probabilmente nemmeno il più urgente. Personalmente ritengo che la questione vada approfondita in tutta la sua complessità. Anche per questo, il Consiglio uscente ha proposto al Congresso la costituzione di una speciale commissione “Rabbanut, Kasherut e Cri (aspetti organizzativi)”. Attraverso un’attenta riflessione su queste tematiche speriamo si possa giungere ad una maggiore comprensione dei problemi e alla loro possibile soluzione sul piano pratico e, di conseguenza ad una più precisa normazione.
Proprio perché questa riflessione è appena agli inizi, e l’approfondimento è necessario, ritengo che la trattazione dell’intera tematica non sia matura. Già in altre sedi ho proposto di stralciare l’intera materia dalle modifiche statutarie e impegnare l’eligendo Consiglio a predisporre una proposta di riorganizzazione generale della Rabbanut, della formazione rabbinica e dei servizi rituali, eventualmente centralizzandoli a partire dalla kasherut. Ultimo tema che vorrei trattare è il problema della tutela delle minoranze nei Consigli delle Comunità maggiori. La Commissione ha proposto l’adozione di un sistema proporzionale, dal quale le Comunità di Roma e Milano potrebbero distaccarsi a condizione di adottare un sistema elettorale rispettoso delle minoranze. Una parte della Comunità di Roma non gradisce questa modifica. Penso che non si possa modificare lo Statuto su una tematica che riguarda esplicitamente la Comunità di Roma, contro quella Comunità, tuttavia credo anche che il tema della tutela delle minoranze nel nostro Statuto sia un tema centrale che riguarda tutti. È perciò necessario che lo sforzo di coniugare un sistema elettorale che consenta il panachage con la tutela delle minoranze sia fatto dal Congresso stesso. A prima vista la soluzione potrebbe consistere in una drastica riduzione delle preferenze, che in un sistema fortemente bipolare come quello romano, di fatto emargina il tentativo delle liste minori di entrare nel gioco elettorale.
Anselmo Calò, consigliere UCEI, Pagine Ebraiche, dicembre 2010