Hatzèr – Una spiegazione possibile

Hatzèr in ebraico significa recinto o cortile, ma nei nostri dialetti giudaico italiani assume un significato sociale più complesso. Vivere in hatzèr era la versione ebraica di una imposizione giuridica, il ghetto, che per secoli abbiamo certamente subito ma anche interpretato a modo nostro. Era un mondo nello stesso tempo aperto e chiuso, che ha segnato nel tempo a tal punto le realtà locali, che ancora oggi se ne riconoscono con chiarezza i tratti e le caratteristiche. Nonostante la secolarizzazione, e nonostante l’ormai lungo periodo storico di emancipazione e integrazione che ha caratterizzato l’epoca che va dall’epopea risorgimentale ai nostri giorni (così ben tratteggiata da Anna Foa al congresso UCEI alla presenza del Capo dello Stato), quando gli ebrei italiani si incontrano fra loro misurano certamente una forte sintonia nei comportamenti e nel modo di riferirsi a una tradizione vissuta con passione. Ma percepiscono anche una certa distanza nei comportamenti, nel modo di vivere e di raccontare sé stessi. La fotografia che ne emerge è quella di un mosaico di hatzerìm che stanno assieme perché sono parte della stessa storia, ma nel contempo sono gelosi custodi di realtà locali che non intendono perdere le loro prerogative di autonomia. La chiave sta nel comprendere la sostanza reale di questa situazione e di trovare il giusto equilibrio per interpretarla. Per esempio, quando si sente dire con convinzione che la Giornata Europea della Cultura Ebraica è solo una vetrina per l’esterno e non un modo di vivere l’ebraismo, non si tiene conto che in una piccola realtà (le famose “piccole comunità”) il lavoro volontario che si attiva per organizzare e programmare l’evento si trasforma in una preziosa occasione di lavoro e di riflessione. In questi casi la legittima richiesta che proviene dalla società civile, che vuole sapere e conoscere chi sono gli ebrei e come si esprimono nella loro vita comunitaria, si trasforma in una spinta per conoscere meglio noi stessi. Nessuno di noi nasce imparato, e sono lontani i tempi in cui da quando i bimbi avevano quattro o cinque anni iniziavano a conoscere nel Chéder i fondamentali della nostra tradizione. Oggi spesso sono proprio le domande degli altri a spingerci ad approfondire aspetti anche fondamentali della nostra tradizione. L’importante è mettere sempre al centro del nostro impegno lo studio continuo, il Talmud Torah, sia che nasca come spinta interiore, sia che emerga come esigenza per rispondere a domande di altri. E’ questa la natura del hatzèr (nel contempo aperta e chiusa), ed è questa – che lo si voglia o meno – la sostanza della storia da cui proveniamo e di quella che ci troviamo a vivere.

Gadi Luzzatto Voghera