Voci a confronto

Ed ora, dopo la folla oceanica che ieri è scesa nelle vie del Cairo e delle altre città dell’Egitto che fu di Mubarak, che cosa succederà? Questo è l’interrogativo che si pongono tutti i principali commentatori, e solo pochi sembrano avere una loro risposta. Su Avvenire si legge un’intervista a Samir Khalil, un egiziano esperto di islam, che confessa candidamente che tutto è ancora avvolto nell’incertezza. Giulio Meotti sul Foglio intervista il generale israeliano Eiland e si vede che anche per lui tutte le opzioni sono ancora possibili, ma si deve porre la massima attenzione alla potenza dell’esercito egiziano, organizzato ed armato dagli USA; troppo potente per non far gola a molti, nello scacchiere medio-orientale. E, fin da ora, gli islamisti egiziani chiedono di congelare ogni accordo con Israele mentre si fanno più intensi i lanci di missili dalla Gaza controllata da Hamas (solo Meotti sembra accorgersene). Micalessin, sulle colonne del Giornale, riprende parole pronunciate in passato da diversi leaders dei Fratelli Musulmani per evidenziare che non sono sinceri democratici, ma piuttosto astuti integralisti. Mentre El Baradei continua a non opporsi ad una propria candidatura alla presidenza – qualora gli venisse chiesto dalla maggioranza popolare, ovviamente – Michele Giorgio sul Manifesto scrive che anche il capo della lega araba Amr Musa, già ministro degli esteri di Mubarak, ma da tempo in rotta col rais, si candida alla presidenza in un Egitto dove sembrerebbe che solo i copti, coi pochi amici del regime, siano preoccupati del proprio futuro. Chi oggi, più di tutti, sembra avere solo certezze è Barbara Spinelli che, dalle colonne di Repubblica, cerca di fare riflessioni su tutto. Per Barbara Spinelli l’islam non è incompatibile con la democrazia, e questo ragionamento esce da una sua ricerca di chi sarebbe da considerare amico, e chi nemico. In tale suo approfondimento leggiamo che i movimenti arabi dovrebbero essere accolti con speranza da “quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente” (espressione questa che fa pensare che così non sia per la commentatrice di Repubblica). A questo punto Spinelli si lancia duramente contro lo Stato di Israele, “nato come stato etnico” e, arrivando al principio di “one man one vote” sembra accettare che lo stato binazionale con maggioranza araba sia la soluzione destinata a prevalere e, alla fine,  ad essere appoggiata dagli USA per il sacrosanto principio democratico. Per Arrigo Levi, su La Stampa, wait and see sarebbe oggi l’atteggiamento dominante; ma attenzione: se per Israele viene a mancare quella alleanza che fu utile per contrastare movimenti integralisti come Hamas, ora sarà giocoforza accettare concessioni fino ad oggi sempre rifiutate. Non mi sembra tuttavia che Levi analizzi a fondo queste concessioni sempre rifiutate, e le ragioni di tali rifiuti. Non è necessariamente la loro accettazione la salvaguardia del futuro di Israele, né sembra vero che i governanti israeliani abbiano solo cercato di avere una Palestina sempre più debole per andare avanti. Ancora su La Stampa Vittorio Emanuele Parsi suggerisce di addivenire a patti con tutte le parti scese in piazza per mettere al sicuro il futuro; teoria, questa, che sembra non prendere in considerazione quanto suggerisce il Corano: in certi momenti si possono fare accordi col nemico, ma avendo ben presente che, nel momento in cui poi si è forti abbastanza, questi patti sono da cancellare. Leon Wieselter, dalle colonne del Foglio accusa Obama e gli uomini del suo staff di essersi fatti cogliere, ancora una volta, impreparati dalle rivolte; per i democratici sarebbe meglio capire che la Freedom agenda di Bush non era, in fondo, così male. In un editoriale ancora del Foglio si legge che anche i capi di Al Azhar, tutti di nomina governativa, chiedono autonomia gestionale che cambierebbe completamente il loro peso in un Egitto dove i Fratelli musulmani sembrano essere l’unico gruppo davvero organizzato. In un altro articolo si arriva a sentire gli egiziani scesi in piazza più vicini a noi: anche là la fede calcistica domina su tutto, e, come da noi sono memorabili le rivalità dei tifosi di Torino e Juventus, in Egitto il popolare Al Ahly e la ricca Zamalek finirebbero con avere il loro peso anche in queste giornate; due squadre, queste, che sempre si incontrano su terreno neutro, e che hanno difficoltà perfino a trovare arbitri, anche all’estero, pronti a dirigerne le sfide; oggi i loro tifosi sono anche dalle due parti delle barricate. Sul Corriere Stefano Montefiori va ad intervistare, in Francia, Olivier Roy, altro esperto di islam; ne risulta che l’Egitto di oggi sarebbe più nella scia di Erdogan che dell’Iran, ma se poi ci dice che le manifestazioni ricordano quelle di Teheran di due anni fa, il risultato finale potrebbe essere proprio l’Iran di oggi. In un servizio da Gerusalemme di Marc Henry Le Figaro mette l’accento su quanto poco affidabili siano i governanti USA, pronti, al momento opportuno, a lasciar cadere i loro alleati; è una messa in guardia per tutti gli amici dell’America, e già Kissinger sosteneva che comunque le alleanze sono limitate nel tempo. Eid Camille, su Avvenire, mostra la grande vicinanza di oggi dell’Iran al popolo egiziano, pur senza che tra i due paesi esistano relazioni diplomatiche. Il Fatto quotidiano si chiede chi, tra Marocco, Libia, Giordania e Yemen sarà il prossimo paese a finire in prima pagina. In Giordania, infatti, il re ha nominato un nuovo primo ministro, Marouf Bakhit, che dovrà bloccare sul nascere la rivolta incombente anche ad Amman. Questa situazione di estremo pericolo è, tra gli altri, molto ben esposta in un editoriale del Foglio. Le Figaro infine, per chiudere questa pagina di politica internazionale, intervista il primo ministro libanese Mikati che ovviamente nega di aver sottoscritto qualsiasi accordo sottobanco con Hezbollah; quando mai si ammettono simili accordi? L’Herald Tribune rende omaggio a Tullia Zevi e, con l’occasione, descrive ai propri lettori cosa avvenne in Italia con la complicità del popolo, del Re e del Vaticano. Sulla polemica di questi ultimi giorni tra Battista col suo ultimo libro e Sergio Romano che ha pubblicato ieri sul Corriere la sua personale posizione, oltre a Cesare Cavalieri che, su Avvenire, scrive parole sostanzialmente condivisibili, anche se poi scrive che le persone che egli frequenta sono in stragrande maggioranza filoisraeliane (davvero strane le sue frequentazioni), Riccardo Chiaberge sul Fatto quotidiano, dopo aver riportato tante parole dell’una e dell’altra parte, finisce per entrare in una polemica del tutto fuori luogo che lo ha visto parte in causa in passato. Su Libero Giovanni Longoni ci segnala che una sinagoga, col suo rotolo, è stata data ieri alle fiamme in Tunisia; che sia finita anche lì la tranquillità per la piccola comunità ebraica ora accusata di essere stata protetta dall’ex “dittatore” Ben Alì? Infine, su Avvenire, Paolo Lambruschi, dopo aver ricordato il dramma di tanti che, cercando di raggiungere l’occidente, respinti dalla Libia, sono oggi schiavi nel Sinai, esprime dure parole di condanna anche contro Israele, colpevole di tenere le frontiere chiuse. Dramma di questi sventurati, certo; ma Israele potrebbe davvero fare quello che l’Europa non può e non vuole fare? Insomma, contro Israele è sempre facile schierarsi, per troppi.

Emanuel Segre Amar

1 febbraio 2011