Il difficile cammino dell’integrazione

Lo scenario è un edificio borghese in via dei Villini 9, quartiere Nomentano, a due passi dal centro di Roma. Nei pressi di uno dei principali insediamenti ebraici della capitale, in un elegante edificio liberty che fino a qualche anno fa ospitava l’ambasciata somala, risiedono 150 rifugiati provenienti dall’ex-colonia italiana. Rifugiati, non immigrati, né tantomeno clandestini: persone il cui status viene tutelato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, perché nei loro paesi sono perseguitati per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a determinati gruppi sociali ovvero opinioni politiche. Una categoria che dovrebbe essere considerata la più inviolabile in uno stato democratico maturo.
Ebbene: questi 150 somali vivono in un palazzo senza acqua corrente ed elettricità, senza finestre, pieno di topi. Per cucinare si versa dell’alcool per terra e poi si accende il fuoco, mentre l’acqua per bere e lavarsi proviene da un cassone di amianto posizionato sul tetto.
L’Italia, che ha firmato la convenzione e che ospita circa 9000 rifugiati (1500 a Roma, la gran parte accampati al binario 15 della stazione Ostiense), non fa assolutamente nulla per favorirne l’inserimento sociale e i diritti di cittadinanza. Sei rifugiato? Complimenti e tanti auguri. Uno scandalo. Tanto più che il nostro paese accoglie meno di un decimo dei rifugiati che ospita, per esempio, la Germania.
Ma c’è una riflessione, particolarmente dolorosa, da aggiungere. Come ha giustamente sottolineato Luigi Manconi, che ha avuto il merito di sollevare il problema, l’Italia dovrebbe avere un’attenzione particolare a questo tema: furono alcune centinaia di rifugiati politici a emigrare dall’Italia fascista negli anni Trenta. Sandro Pertini, Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Leo Valiani, Giorgio Amendola, tanto per citarne alcuni. Personalità che hanno dato un contributo determinante alla creazione e alla prosperità dell’Italia repubblicana. Sarà perché viviamo un’epoca di inedito, e nefasto, revisionismo storico, che il nostro paese si mostra così insensibile e avaro con questi “eredi” dei nostri padri costituenti?

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas