I tedeschi e Hitler – La mostra di Berlino

Prendendo atto del travolgente successo dell’iniziativa (quasi 200 mila visitatori in poche settimane), la direzione del Deutsches Historisches Museum di Berlino ha comunicato che l’esposizione Hitler und die Deutschen, dedicata alla relazione fra il dittatore e il popolo tedesco, sarà protratta fino alla fine del mese di febbraio per soddisfare le innumerevoli richieste dei visitatori che continuano a pervenire.
Nel numero di gennaio del giornale dell’ebraismo italiano attualmente in distribuzione, il giornalista Guido Vitale, che dirige la testata e coordina i dipartimenti Informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, racconta ai lettori di Pagine Ebraiche la sua visita a una mostra che secondo molti osservatori costituisce una svolta significativa per la Memoria di tutta l’Europa.

La grande ossessione che abita l’Europa


Pazientemente in coda. Anche per fare i conti con la Storia, a Berlino è necessario passare attraverso una fila ordinata. Ogni giorno arrivano a migliaia nella capitale tedesca e si dirigono nel quartiere dei musei lungo la Unter den Linden. Il punto di raccolta è sotto la spettacolare cupola di vetro del Museo storico tedesco, la grande iniziativa culturale simbolo della riunificazione nazionale che Helmut Kohl volle non lontano dalla Alexanderplatz, nel cuore di quello che fu il centro di potere della grande Berlino e in seguito della dittatura comunista. Il Deutsches Historisches Museum non è solo un immenso spazio espositivo, ma anche il laboratorio tedesco della Storia, il luogo dove i tedeschi vengono a fare i conti con il loro passato. Quando il professor Hans Ottomeyer, presidente della Fondazione che governa il museo berlinese, ha deciso di innalzare gli stendardi che annunciano l’esposizione Hitler und die Deutschen – Volksgemeinschaft und Verbrechen (Hitler e i tedeschi – Consenso popolare e responsabilità), i berlinesi hanno capito che questa stagione culturale sarebbe stata quella di una svolta. Non che il tema della dittatura e della guerra sia una novità nella cultura e nell’immaginario dei tedeschi di oggi. Le librerie, i giornali, i teatri, le istituzioni culturali e le attività scolastiche traboccano di iniziative mirate a un confronto con la memoria universalmente considerato rigoroso ed efficace. Ma la mostra berlinese, che resterà aperta fino al mese di febbraio, va molto al di là. Non mira a ricostruire la storia del nazismo e degli anni che trascinarono la Germania e la civiltà europea nell’orrore. Non si accontenta di raccontare. Vuole piuttosto andare andare oltre, fino a scandagliare la coscienza dei comuni cittadini per comprendere quale fu la reale relazione e l’intima complicità del popolo tedesco con il regime che riuscì a ridurre in macerie ogni senso della dignità umana in un popolo che si pretendeva evoluto.
Non Hitler, quindi, ma Hitler e i tedeschi, posti come un inscindibile binomio all’attenzione dei visitatori. La lunga coda scorre rapida, in omaggio alla sobria efficienza prussiana. Ma ancor prima di varcare l’ingresso il visitatore ha il tempo di veder nascere una strana complicità con i compagni di viaggio che si sono raccolti in attesa lì attorno a lui. Poche parole, molti sguardi e si ha il modo di comprendere che al di là dell’innegabile interesse per il materiale esposto e per il rigore scientifico dimostrato dai curatori, il primo motivo per visitare questa mostra non è quello di guardare gli oggetti e i documenti, ma piuttosto la necessità di scrutare gli altri e le loro emozioni. Una sequela infinita di gruppi scolastici, molti giovani venuti per proprio conto, ma anche tanti vecchi, qualcuno che magari in giovanissima età fu testimone, ebbe modo di vivere in prima persona gli anni del regime.
I curatori Simone Herpel e Hans-Ulrich Thamer hanno posto ogni cura nel costruire un ambiente per quanto possibile asettico. Tutto quello che potrebbe avere a che fare con la personalità di Hitler è stato messo da parte e nell’immensa raccolta di materiale non appare neppure un effetto personale, un ricordo, un oggetto che potrebbe rischiare di risvegliare il culto e la morbosità di una mente malata. Inutile cercare il brivido del passo di marcia, le note isteriche degli slogan, il tuono incontrollato della folla rapita. Non contenti dei rigidi parametri fissati in partenza, i curatori hanno privato il dittatore anche della voce, in modo che ogni punto del percorso parlasse con il silenzio più rigoroso. I contatti fra i visitatori, lo scambio dei loro gesti e dei loro sguardi, avvengono così in un’atmosfera surreale, dove la mancanza di suoni man mano che si procede si fa sempre più opprimente. Fra loro, in questa resa dei conti fra tedeschi, il visitatore straniero si sente a tratti un intruso, affascinato e imbarazzato al tempo stesso di assistere a un rituale intimo e agghiacciante. Il primo istinto è quello di sparire, mai farsi notare. Ma dichiararsi estranei non avrebbe senso. immagini La Germania fu e continua a essere il cuore di questa Europa. Le sue cadute rovinose, le sue riflessioni coraggiose riguardano da vicino tutti noi. Sessantacinque anni dopo la fine della guerra che la mise al margine del mondo civilizzato e ne provocò la lacerazione nazionale protrattasi fino alla caduta del Muro, Berlino capitale non ha più paura di guardarsi allo specchio. E lo fa spiegando ai propri giovani che Hitler non è stato un accidente della Storia, non è stato un errore di percorso, non è stato nemmeno un dittatore che si è imposto con la prevaricazione. Un vasto consenso di massa e di cultura, una fabbrica di paccottiglia apparentemente innocua, un calderone di slogan, di soprammobili, di cianfrusaglie che sembrano fatte apposta per incantare gli imbecilli e che nei fatti fecero quasi l’unanimità. La mostra berlinese rappresenta così una lezione di politica culturale e di coraggio al tempo stesso. Quel coraggio di capire, di guardarsi in faccia, di fare i conti con chi siamo davvero e da dove veniamo senza la pretesa di celare le responsabilità in una marmellata di buoni sentimenti. Un coraggio che altrove, e in specifico dalle nostre parti, è sempre stato merce rara. Il percorso si snoda allo scarto da qualunque sensazionalismo attraverso 600 fra documenti e oggetti e 400 immagini raccontando l’evoluzione della società tedesca negli anni della dittatura, tanto da far pensare che sarebbe forse stato più equo capovolgere il titolo della mostra in I tedeschi e Hitler.
Ma soprattutto il visitatore è condotto dall’evidenza che il popolo tedesco e i popoli dei paesi che appoggiarono la Germania furono interamente responsabili del nazismo. Molti di loro appoggiarono una soluzione finale al problema ebraico. L’assassinio degli ebrei non poteva essere ignorato dalla popolazione, ma al contrario, era tacitamente approvato sulla base di un misto di compiacimento, di indifferenza morale e di paura. E non solo. L’esposizione dimostra come la popolarità di Hitler restò alta fino all’ultimo, anche quando la guerra era chiaramente perduta, la sconfitta trascinava nella rovina decine di milioni di vite umane e le condizioni di vita si facevano insopportabili.
Di nuovo all’aria aperta, lungo l’Unter den Linden, ci si incammina lungo le ferite sempre aperte e le sfide del domani. Molti mali dell’Europa restano. Le ombre del passato non sono state tutte dissipate, ma è ben chiaro che i tedeschi hanno imparato a chiamarle con il loro nome. Fra i visitatori si riconoscono al volo i turisti israeliani. A poca distanza rinascono le sinagoghe della realtà ebraica più dinamica al mondo. La Memoria non è una litania, ma un fiume in piena. Un doloroso percorso collettivo che a ognuno impone la propria responsabilità.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, gennaio 2011