«Banalità del male»? Un concetto da rivedere

In quella che è stata chiamata «l’era del testimone» gli storici hanno svolto senza dubbio un ruolo indispensabile e decisivo. Ma «i lumi della storia», per citare Levinas, non sono in grado «di risolvere tutto». E la Shoah non si riduce all’oggettività dei fatti, ma costituisce una sfida che in Europa, e soprattutto in Germania, il pensiero non ha ancora davvero raccolto.
Così restano non discussi, e quasi indiscutibili, alcuni concetti che con coraggio e originalità gli ebrei tedeschi cercarono di delineare «risvegliati» dai «racconti» dei sopravvissuti. Riflettendo sul male radicale fu Hannah Arendt a parlare di «banalità del male» nei suoi articoli sul processo Eichmann che seguì come inviata del «New Yorker». Già allora, nel 1963 e negli anni successivi, i suoi scritti suscitarono aspre discussioni, in particolare all’interno del mondo ebraico. Poi però la tesi sostenuta da Arendt fu non solo accettata, ma ripresa e ripetuta – talvolta senza riflessione. Eichmann rappresenta per Arendt un tedesco «comune» e «normale», a ben guardare «incapace di distingue il bene dal male». Quel che insomma contraddistingue il carnefice sarebbe la mancanza di spontaneità, di libertà, l’assenza di un pensiero personale, o addirittura l’incapacità di pensare se non sulla base di parole e schemi precostituiti. La «banalità» del male sarebbe la mancanza di autenticità, la docilità con cui obbedisce agli ordini dei superiori. In breve: il bravo tedesco dalla «coscienza pulita» che mise in pratica il nazismo (la grande maggioranza – come sappiamo) condivise questa «banale» condizione di rinuncia al giudizio personale.
Certo nel lessico di Arendt «banalità» non vuol dire innocenza; ma è un modo per spiegare la malvagità umana in termini di manipolazione totalitaristica. Senza essere perversi o sadici, si possono commettere i crimini più efferati in perfetta buona fede, cioè restando individui «spaventosamente normali». La «colpa» verrebbe dunque dalla «obbedienza».
Più passa il tempo, più si acquista distanza e si fanno valere le ragioni della filosofia, più riesce difficile condividere questa tesi che andrebbe finalmente rivista. Non solo perché sottovaluta la barbarie nazista e il terreno che l’ha alimentata. Non solo perché, non volendo, deresponsabilizza il colpevole. Ma perché finisce per privare il male di una dimensione ontologica profonda rendendolo un fenomeno di superficie o addirittura nullificandolo: «il pensiero – così Arendt – cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla».
Di fronte alla minaccia costituita dal negazionismo affermazioni del genere non sono più accettabili. E con Arendt, oltre Arendt, una nuova riflessione sul male e sulla sua presunta banalità è divenuta indispensabile.

Donatella Di Cesare, filosofa