Noi Italiani – 17 marzo: conosciamo il dolore di aver perduto l’Italia
Non si sa ancora se il 17 marzo sarà festa nazionale o no. Lo si sarebbe dovuto stabilire con congruo anticipo, ma non entriamo nel groviglio dei motivi politici alla base del dilemma, cui si aggiunge la preoccupazione economica per il danno alla produzione.
Ci sono popolazioni di frontiera che recalcitrano. Ci sono doglianze nel Meridione e tendenze di secessione al Nord. Vi sono, di contro, diffuse istanze a ritrovare ciò che accomuna il paese, con opportune riflessioni al passo dei tempi. Non si dovrebbe obbligare a festeggiare e nemmeno impedirlo o boicottarlo. Se non si vuole perdere un giorno di attività, potrebbe bastare mezza giornata. Se le scuole non si chiudono, possono dedicare il giorno ad apprendere qualcosa degli eventi e dei problemi nei centocinquanta anni.
Anche tra noi ebrei ci saranno i più sensibili e i più distaccati sulla ricorrenza, ma nel complesso sentiamo che ci riguarda e già da qualche mese ne parliamo. Anche noi, da un po’ di generazioni, cominciando da prima dei 150 anni, abbiamo contribuito, e non poco, a fare l’Italia. Ci siamo stati nell’Italia fatta nazione, ci stiamo, con una storia peculiare e con la parentesi per eccellenza traumatica dell’esclusione, condita da un carico di denigrazione e arrivata un esito di martirio. Siamo stati reintegrati e abbiamo tante esperienze da raccontarci e raccontare, nell’ascolto e nella raccolta di tutte le afferenze nazionali, nonché dei nuovi arrivi, in quantità di etnie e culture.
Siamo antichi su questo suolo, con una presenza incessante, se si guarda al complesso della penisola e delle isole. Abbiamo integrato sulla pianta dell’ebraismo italiano più antico molte ebraiche provenienze, formandoci e formandole italianamente, nel circuito delle regioni, da ben prima dell’unità nazionale. Siamo la componente italiana, numericamente esigua ma ben attestata per qualità, dell’ Am Israel, caratterizzata internamente per regioni e città, con diverse composizioni tra l’ebraico e i dialetti, con locali cadenze nella pronuncia, ma ben esercitati nella lingua d’Italia a mano a mano che si formava. L’eloquenza dei sermoni, magister Leone da Modena, dava all’oratoria sacra il timbro di un genere letterario, e il Collegio rabbinico di Padova la alzò di contenuti civili. Pio IX, in una delle udienze alla rappresentanza della comunità, si complimentò con il segretario Scazzocchio per il tenore dell’eloquio, salvo a strapazzarlo per l’ardire nel voler salvare il ragazzo Edgardo Mortara. Portiamo nei cognomi le dimore capillari, finanche di minuti pittoreschi paesi, dove si rintraccia, per dirla con Michele Luzzati, la casa dell’ebreo . Le giudecche, gli archivi, le monografie locali, parlano di noi dove non ci stiamo più.
La fedeltà del nostro resto di Israele, nella terra di Tito Flavio Vespasiano e dei cattolici pontefici, è costata restrizioni, confinamenti, umiliazioni, avvilenti riduzioni di mezzi per campare, roghi di libri e di persone, ma appena si dessero spiragli di umana tolleranza il lavoro si ingegnò per dar maggiori frutti e sociale utilità, compresa quella malfamata del prestito, iniziatore della banca ed emulato dai cristiani, sicché a Londra i lombardi condividevano, con i giudei del continente, cattiva nomea, guadagni, clienti in cerca di loro. Esclusi dal possesso della terra, i nostri mercanti, non appena possibile, vi andarono, da intermediari, da fornitori, da esercenti di filande, finalmente da proprietari, e quando si parlò di giustizia sociale Alberto Cantoni scrisse il romanzo L’Illustrissimo per esortare i proprietari a capire i mezzadri e i villici, mentre Achille Loria, laico materialista nipote di rabbino, sostenne che ogni uomo ha diritto nascendo ad una quota del planetario patrimonio terra.
Appena le corti principesche e le società circostanti si aprirono ad accogliere talenti di questa minoranza, i talenti emersero, più svariati, accennando la differenziazione occupazionale, che poi, con straordinaria mobilità, si è compiuta dopo l’emancipazione. Quando la cultura illuministica avvertì, con accenti magari non simpatici, gli effetti negativi dell’avvilimento e la convenienza di migliorarci, l’Haskalah, illuminismo ebraico, le rispose dalla nostra sponda, mostrando già il miglioramento in atto, in endogena risposta all’asburgico editto di tolleranza. Alla diffidente compassione del conte Giovanni Battista Gherardo d’Arco, che riteneva opportuno sollevarci e cambiarci da un complesso di limitazioni e di pericolosi difetti, Benedetto Frizzi mostrava che già ci si sollevava con nostra e con altrui utilità (si vedano gli atti del convegno Benedetto Frizzi. Un illuminista ebreo nell’età dell’emancipazione e Il prezzo dell’eguaglianza di Gadi Luzzatto Voghera). Bella lezione di una cultura di gruppo che, evitando il vittimismo, miri al positivo.
Poco dopo, la rivoluzione francese, tra tante impetuose novità, diede all’Europa il segnale dell’emancipazione ebraica, destando fermenti di ebrei nei club, nelle logge, poi nomine e presenze nelle guardie civiche, nelle armi, nelle piazze, nei municipi delle repubbliche. Se ne pagò lo scotto alle crudeltà del sanfedismo, ma si riacquistò l’emancipazione nell’età napoleonica, che solennizzò, tra imbarazzanti quesiti imperiali, il Sinedrio, con larghi resoconti nel “Giornale Italiano” di Vincenzo Cuoco. La Restaurazione rimise in vigore ghetti e restrizioni, tuttavia con differenza di leggi e trattamenti da stato a stato. Cominciò l’attesa di nuove scosse o di nuove graduali modifiche, nel riadattamento all’emarginazione, ma con la sensazione che i brevi trascorsi di fine ‘700 e di inizio ‘800 non fossero stati vani. Singoli ebrei osarono nelle società segrete e, scoperti, furono puniti. Qualcuno perfino morì. Le istituzioni comunitarie furono necessariamente prudenti e si attennero all’atteggiamento di dovuta lealtà, cercando e valorizzando ogni alleviamento o concessione. Nelle comunità maturava frattanto l’impegno all’educazione, all’istruzione professionale, all’assistenza dei poveri. Intellettuali ebrei si intendevano con singoli e ambienti culturali di tendenza liberale. Spiragli di simpatica attenzione, tra le maglie della censura, si aprivano in periodici, come la “Antologia” del Vieusseux e la milanese “Rivista Europea” di Carlo Tenca, che ebbe collaboratori ebrei e segnalò l’apparizione del primo nostro periodico, la “Rivista Israelitica” di Cesare Rovighi, pubblicata a Parma dal 1845 al 1848.
Da un caso legale in Svizzera, nel 1835, di impedimento ad acquisto fondiario di cittadini ebrei francesi, si levarono contemporaneamente le voci di Mazzini e, più sistematica, di Cattaneo a favore dei diritti civili per gli ebrei. I giudizi stereotipi sugli ebrei duravano, e più tardi si aggravarono di nuovi motivi, ma, nella varietà delle opinioni, tesero a modificarsi con l’amalgama del Risorgimento. La pubblicistica, gli epistolari e la memorialistica mostrano, in chiaroscuro, fra i tanti incontri di identità italiane, quelli degli ebrei e con gli ebrei, in una gran galleria di toni e sfaccettature. Vi è materia per una antologia. Angelo Brofferio ironizzò su un fortuito passaggio, tra gli affaccendati e gretti abitatori, nella contrada del ghetto, ma promosse la collaborazione di ebrei ai suoi giornali, con influenza del livello sociale e culturale. Alessandro D’Ancona ha narrato l’iniziazione di fanciullo al Risorgimento, quando entrarono in casa, a Pisa, tre patrioti, che avevano dovuto lasciare il luogo nativo nello Stato Pontificio, rivolgendosi alla sua famiglia, che da lì era venuta in cerca di tolleranza religiosa. Uno degli ospiti era Luigi Carlo Farini, che poi soggiornò nella villa fiorentina di un suo zio e lo istruì in politica, convertendolo ad un moderato liberalismo da mazziniano e guerrazziano che era stato per spontaneo impulso. D’Ancona frequentò Farini a Torino e da lui fu presentato al Cavour.
Mazzini da Londra parlava anche di ebrei nelle lettere alla madre, che temette lo avvelenassero, quando andò a pranzo dai Levi Nathan, ad esordio di quell’amichevole stretto supporto, che durò fino agli ultimi suoi giorni nella casa di Pisa. Condivise con lui l’ esilio Angelo Usiglio, esule da Modena dopo il moto del ’31. A Londra gli fecero visita Giuseppe Finzi e Tullo Massarani. Ebrei militarono nella Giovine Italia e nel Partito d’Azione. E’ stato un filone ebraico entro il mazzinianesimo italiano ed europeo, con adesioni politiche fedelmente durevoli e con altre temporanee, per evoluzioni poi generalmente avvenute , ma con un lascito morale ed etico-politico, di rilievo per le interpretazioni di Mazzini, nel senso della democrazia, dell’aspetto religioso, dell’aspetto sociale, del nesso di patria e giustizia, di italianità, europeismo, umanità. Una figura caratteristica di nutrimento mazziniano, nella passione risorgimentale di un’anima ebraica, fedele ed aperta, fu Davide Levi. I suoi libri testimoniano le tappe del Risorgimento e il pathos, con cui ha descritto la prova musicale dell’inno nazionale, vale di essere ricordato nell’evento celebrativo del 17 marzo, con o senza la chiusura di uffici, stabilimenti e scuole.
Epico, volontaristico, battagliero fu il concorso giovanile di ebrei nelle file di Garibaldi, dalla difesa della Repubblica Romana, con triumviro Mazzini, lungo tutte le imprese garibaldine in Italia ed altrove, con tributo di ferite e caduti. E’ nelle file garibaldine, con lo sbarco in Sicilia e la risalita fino al Volturno, che una pattuglia significativa dell’Ebraismo italiano ritrovò il contatto con il Meridione: una nota figura è Enrico Guastalla. Al nome di Garibaldi ebrei accorsero dall’estero, fino a Marcou Baruch, l’iniziatore del sionismo sefardita, animatore dei primi sionisti italiani, tra cui Dante Lattes. Il filone garibaldino fu altresì di mediazione politica, in propulsiva e spesso frontale concorrenza, tra la democrazia di ispirazione repubblicana e il governo subalpino. Un ruolo di organizzatore e amministratore, nel comitato per il milione di fucili fu svolto da Giuseppe Finzi, personaggio di spessore politico, con politico spostamento, deputato dal 1861 al 1886.
All’altro capo della politica nel corso del Risorgimento si affermava, anche in campo ebraico, il filone moderato, che guardò al Gioberti, ai D’Azeglio, e poi soprattutto al Cavour, nel decisivo passaggio del 1848, contrassegnato, nello spaccato ebraico, da una riuscita campagna, in operazione congiunta con il fior fiore del liberalismo e del cattolicesimo liberale, per l’ emancipazione nostra e dei valdesi. In prima fila erano il rabbino maggiore di Torino Lelio Cantoni ed il giornalista Giacomo Dina, di lungo corso, poi, con “L’Opinione”, fino al trasferimento in Firenze ed in Roma. Cavour aveva in Dina un campione di stampa e promosse lo schivo impiegato Isacco Artom a essenziale segretario, che scriveva dispacci e relazioni all’unisono con la mente dello statista. Morto Cavour, Artom seguitò la carriera in diplomazia, specialmente con Visconti Venosta, fino al passaggio, onorevole e giubilante, in senato, quando cessò il governo della sua destra storica. Il moderatismo ebraico continuò, nella nuova fase, con posizioni di spiccata sensibilità sociale, con un grande impegno per il credito popolare e la cooperazione: il più noto al riguardo è Luigi Luzzatti, che giunse alla presidenza del Consiglio. Il suo governo, intermezzo dell’età giolittiana, fu breve, non fu facile nel dovere tener conto di contingenti convergenze parlamentari che lo sostennero, conseguì l’importante conversione della rendita, e finì, esattamente un secolo fa (ecco un centenario), anche per via di un motivo particolare, che affrettò il previsto ritorno di Giolitti: l’opportunità di non celebrare il cinquantennio dell’unità con un ebreo a capo del governo, dati i delicatissimi rapporti con la Santa Sede. Non alziamo, per carità, una nuova querelle retrospettiva su questa coincidenza. La presidenza del Consiglio, in fin dei conti, è stata solo un culmine nell’opera politica di Gigione Luzzatti, che avuto molti riconoscimenti, anche di Mussolini, prima che sui suoi libri, con la svolta razzista, nelle biblioteche italiane fosse stampigliata la formula non gradito. C’è il Luzzatti economista, in grandi discussioni nel bivio tra liberismo e protezionismo, c’è il Luzzatti laicamente spirituale, assertore e studioso della libertà religiosa, vicino al modernismo, discosto come parecchi dal tracciato vero e proprio del retaggio ebraico, ma pronto a rivendicare la dignità dell’essere ebreo e a soccorrere lontane comunità in pericolo. Oltre Luzzatti la politica italiana ha annoverato parecchi ebrei nei governi, titolari di ministeri importanti: le finanze, il tesoro, la guerra (unico paese per quanto mi consti, con il generale Giuseppe Ottolenghi) la giustizia e i culti. Davvero molti sono stati i parlamentari, deputati eletti dal popolo, senatori un tempo nominati per particolari meriti o, come si diceva, creati.
L’impegno sociale denota una schiera di economisti, politici, pensatori ebrei, anche con una propensione di indole corporativistica, per esempio in Gino Arias e in Riccardo Dalla Volta. Non fu soltanto indirizzo di sfera pubblica, ma anche impiego generoso di mezzi privati, a scopi di socialità, di educazione, di cultura popolare e di alta cultura, come si vede in celebri fondazioni di Prospero Loria, dei Franchetti, dei Besso e non pochi altri. Era un esito della tradizionale zedakah riversato nella grande società circostante, non senza critiche, talora, di correligionari, che non lo vedevano altrettanto prodigato nell’ambito delle comunità, ma anche le comunità hanno avuto benefiche opere ed eredità.
Il riformismo non fu soltanto sociale, ma anche compreso di interesse per gli equilibri tra le parti della penisola, dovendosi ricordare l’opera di Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino e con Enea Cavalieri nell’inchiesta sulla Sicilia, a proposito del Meridione di cui già ho parlato.
Al di là degli interessi ed impegni sociali, una parte degli ebrei italiani ha militato, fin dagli inizi, nel socialismo, che ha avuto leader, teorici, giornalisti, amministratori locali ebrei, nelle sue varie tendenze: Giuseppe Emanuele Modigliani, Claudio Treves, Elia Musatti, Ugo Guido Mondolfo, Angelo Oliviero Olivetti, Uberto Mondolfi, Angelica Balabanov, Anna Kuliscioff (invero di padre ebreo convertito al cristianesimo ortodosso), Margherita Sarfatti, Carlo Salomone Cammeo. Al di là, poi, del socialismo, è l’apporto al comunismo, ma il discorso si sposta in avanti nel tempo.
La mappa politica dell’ebraismo italiano nella formazione e nelle prime fasi dell’unità italiana ha avuto altri spazi con la sinistra storica o costituzionale, quella di Depretis e la pentarchica (un politico e giornalista di primo piano fu Attilio Luzzatto, direttore de “La Tribuna”), con il partito repubblicano che compose l’eredità mazziniana e la cattaneana (una figura di primo piano fu Salvatore Barzilai), con il partito radicale. Ebrei furono appassionati ed attivi, dalla sorgente triestina e giuliana, nell’irredentismo, e non mancarono nel nazionalismo, come poi nel fascismo. Ne risulta un quadro di spontanea divisione e di grande articolazione, per spontanee collocazioni in ideali e settori diversi, compenetrandosi gli ebrei con la società italiana e le sue dialettiche. Rilevante è stata la presenza nella massoneria, sia per convergenza nella difesa della laicità, sia per sentore di simbolismo biblico, sia infine perché essa raccolse gran parte delle élites italiane o di strati borghesi, pur essendo anch’essa una minoranza. Un topos dell’antisemitismo è l’abbinamento polemico degli ebrei con la massoneria, cosa risaputa e ben documentata nella attuale mostra dell’antimassoneria, che ho visitato a Torino.
Resta da dire, tra le posizioni ideologiche e politiche, del sionismo, che può sembrare ma non è precisamente avulso dal quadro italiano, sia per l’attaccamento all’Italia che i sionisti hanno continuato ad avere in un ideale di armonici sentimenti patriottici, sia per il proposito, in quanto ebrei e italiani, di una relazione amichevolmente costruttiva tra l’Italia e la sede ebraica da fondare in Palestina. In fondo ogni posizione politica ha dei riferimenti negli orizzonti internazionali, come opzioni di politica estera, e tanto più nell’orizzonte mediterraneo, che tanto interessa l’Italia. I sionisti, o ormai semplicemente la maggioranza degli ebrei consapevoli, hanno il riferimento mediterraneo di Israele e costituiscono un fattore di collegamento con quella piccola ma considerevole sponda. A differenza delle posizioni anti israeliane, che discriminano specificamente quel paese, gli ebrei non pretendono esclusioni di alcun paese mediterraneo, bastando a loro che Israele viva e sia garantito, anzi auspicando, proprio per questo, l’allacciamento di rapporti con tutti i paesi di questo mare comune. Il risorgimento italiano è stato di esempio per il risorgimento ebraico, che nei sentimenti e nell’ottica degli ebrei italiani vuole essere il più possibile in armonia con l’Italia, a partire da esistenziali esigenze di chi ha sedi ed affetti in entrambi i paesi rivieraschi.
L’integrazione degli ebrei nella vita italiana ha direttamente seguito l’emancipazione, perché da una collocazione, per quanto marginale, da lunghissima data, sui territori, con una coltivazione di attitudini morali ed intellettuali, le famiglie ebraiche, veri seminari di primaria socialità, sono entrate nel vivo della costruzione unitaria ed hanno assimilato nuovi tipi di attività con versatile rapidità. Siamo alla famosa osservazione di Arnaldo Momigliano della nazionalizzazione simultanea e parallela, che invero necessita di una certa correzione, perché la differenza, per quanto attenuata, persisteva, soprattutto nella rappresentazione da parte non ebraica, nel contempo stupita ma anche allarmata dai successi dell’integrazione. Il caso Pasqualigo, con la raccomandazione del deputato liberale veneto, nel 1873, a non dare il ministero delle finanze a un ebreo, non ebbe effetto nei tempi lunghi, ma è una delle increspature, che richiede una temperata valutazione critica del giudizio, nel complesso valido, di Arnaldo Momigliano, espresso nel 1933 e contraddetto cinque anni dopo dalle leggi antiebraiche: che abbia voluto essere un contrafforte a parare l’esempio tedesco? Alla massiccia, ma non generalizzabile, avversione cattolica, o meglio del cattolicesimo integrali stico, si aggiunse l’ideologia nazionalista, che induriva la disposizione culturale e gli obiettivi internazionali del patriottismo risorgimentale, diffidando di ogni sporgenza identitaria. Si aggiungevano le varietà di umori, di sospetti, di inquietudini, di slittamenti estremistici, variamente polemici verso uno o altro obiettivo, a seconda delle contingenze e delle concorrenze: tipico e frequente fu, al riguardo l’uso elettorale dell’antisemitismo. E ancora si aggiungevano le infiltrazioni di tossicità antisemitica dall’estero, contenute fino ad un certo punto dall’equilibrio italiano, finché il totalitarismo fascista l’assorbì o l’imitò dal potente alleato, decidendo di non esser da meno. Ma quel tragico rigetto non ha troncato, anzi rinvigorisce a distanza, la storia e la realtà di un ebraismo italiano vitale e partecipe. Di fronte ai marosi centrifughi, che sdegnano o caricano di colpe la costruzione dell’Italia, noi, che conosciamo il dolore di averla perduta e il costo nell’averla ritrovata, possiamo essere tra i sereni soggetti che la valutano e la tengono operosamente in piedi.
Bruno Di Porto