Voci a confronto

Le vicende delle aree che si affacciano sulla costa sud del Mediterraneo sono al centro dei commenti nei quotidiani di oggi, e la situazione sembrerebbe potersi modificare da un momento all’altro. Quale sia la reale situazione in Libia oggi è incerto, e ancora di più lo sono le prospettive che si presentano ai rivoltosi libici che non potranno fare affidamento su aiuti americani ed europei. Gli USA stanno portando due navi da guerra di fronte alle coste, ma queste potranno fare ben poco. Si è parlato di imporre una no fly zone nei cieli libici, ma anche questa prospettiva sembra tramontata. All’ONU qualsiasi decisione si scontrerebbe contro il veto di russi e cinesi che vedono aprirsi la prospettiva di occupare i pozzi petroliferi abbandonati dalle compagnie occidentali, ENI in testa. In una Tripoli apparentemente tranquilla, Gheddafi ha dato il meglio di sé con un discorso di due ore nel quale all’ex amico Berlusconi è stato ricordato che l’Italia ha preso immensi impegni per compensare le colpe della guerra colonialista, e che, oltre a questi, gli interessi economici attualmente in gioco potrebbero causare ulteriori gravissimi danni. Sergio Romano sul Corriere ricorda che il colonnello non è mai stato “duplice”, e che i suoi pensieri sono sempre stati chiarissimi: nella sua visita a Roma ha portato con sé il veterano libico della resistenza anti-italiana, e mostrava sul bavero della propria giacca l’immagine di el-Mukhtar, il libico che Graziani fece impiccare. Per Romano, Andreotti si sarebbe mosso meglio del cavaliere (ma non spiega come, nel suo articolo). Maurizio Molinari su La Stampa riprende le parole di Hillary Clinton preoccupata che la Libia non diventi una nuova Somalia. Non è immaginabile oggi un intervento occidentale, e forse si potrebbe pensare ad un intervento dell’Unione africana. Lorenzo Cremonesi, l’inviato nei teatri di guerra del Corriere, pur se con una visibilità forzatamente ristretta di quanto succede oggi in Libia, lascia trasparire che Gheddafi si stia riprendendo. Identica visione in un editoriale del Foglio, che aggiunge che gli USA non aiutano i ribelli ai quali manca anche il sempre necessario leader. Da quanto si vede oggi si potrebbe dedurre che il peggio, per i libici, debba ancora arrivare. Fabrizio Caccia sul Corriere riprende le parole di Gheddafi che si vanta del baciamano ricevuto da Berlusconi, e gli ricorda i 4 miliardi che l’Italia si è impegnata a investire ogni anno per 20 anni in Libia. Qualunque capo di stato avrebbe difeso le proprie postazioni in caso di ribellione, ma, ricorda il colonnello, solo lui è in grado di difendere il Mediterraneo dai pirati, e, soprattutto, attenzione che altre potenze economiche, la Russia come la Cina, il Brasile come l’India, sono pronte a sfruttare i pozzi libici dagli italiani “senza ragione”, troppo presto abbandonati. Su Repubblica Timothy Garton Ash scrive che metodi liberali, diversi dall’impiego della forza, debbano essere usati. Solo in Bosnia e in Kosovo la forza aveva dietro una motivazione liberale, ma lo stesso non può dirsi per gli altri recenti interventi; Bush non si preoccupava certo del destino delle donne afghane. Ancora sul Corriere Maurizio Caprara scrive che la no fly zone appare ancora ben lontana da poter essere imposta; prima, per cominciare, si dovrebbe distruggere la difesa antiaerea della Libia, e la cosa non sarebbe affatto facile, né militarmente né politicamente. In questa situazione di grande incertezza l’Italia deve pensare ad organizzare qualcosa per le decine di migliaia di profughi che arrivano in Tunisia. Si allestisce là un villaggio Italia che deve ospitare i lavoratori in fuga dalla Libia; quelli egiziani vengono trasferiti in Egitto, ma sono più numerosi quelli che in arrivo che non quelli trasferiti. I cinesi e gli indiani sono rimpatriati con un ordinato ponte aereo, mentre i miserabili del Bangladesh, veri paria, sono in condizioni di totale abbandono. Per Daniel Pipes che firma una analisi su Liberal, i rivoltosi di oggi sono ben diversi da quelli di ieri, che si chiamassero el Husseini o Nasser, Arafat o Khomeini; quelli di oggi reclamano modernità e democrazia, e l’Occidente li deve aiutare. E intanto Pipes si chiede che cosa succederà in Iran, in Arabia Saudita e negli altri paesi del Medio Oriente. Al Cairo sembra, intanto, tornare la normalità, come scrive Antonio Picasso sul Riformista, e Amr Moussa appare sempre di più l’uomo del futuro. Nella capitale egiziana i militari hanno già ricevuto il primo ministro inglese Cameron e il presidente turco Gul, e l’Arabia Saudita, al momento opportuno, potrà mettere sul piatto della bilancia il proprio immenso potere economico. Addirittura, si parla già di truppe egiziane pronte a trasferirsi in Libia a sistemare le cose. In questa situazione, non piccole devono apparire le preoccupazioni per Israele. Lo scrive appunto Picasso, ma ne parla pure, in tono diverso, una breve apparsa sul Manifesto che riprende le parole pronunciate da D’Alema; questi si dichiara appunto preoccupato per l’atteggiamento del governo di Netanyahu. Per il leader DS l’Egitto democratico non penserà di sicuro a far guerra contro il proprio vicino, e tuttavia non potrà non preoccuparsi della sorte dei palestinesi. Tutti si devono adeguare ai principi democratici, e dalle parole di D’Alema sembra che sia solo Israele, proprio l’unico stato da sempre democratico, a non farlo. In questo momento di profonda preoccupazione per tutti, diversi appaiono i pensieri che girano nella testa di Marco Travaglio che, anche oggi, descrive gli avvenimenti in chiave anti Berlusconi e anti Frattini, i suoi nemici prediletti. E in questo momento di preoccupazione, al contrario, Gheddafi, come scrive oggi Vincenzo Nigro su Repubblica, fa presumere che tutto sia oramai sotto controllo, se addirittura si preoccupa che i suoi sudditi tripolini abbiano le notti illuminate da fantastici fuochi artificiali. Altro argomento importante su tutti i quotidiani è offerto dalla prossima pubblicazione del libro di papa Ratzinger dal titolo: Gesù di Nazaret. Gian Guido Vecchi sul Corriere ne anticipa i concetti, come pure, tra gli altri un editoriale del Foglio. Non fu il popolo ebraico a chiedere la morte di Gesù, scrive il papa, dopo aver attentamente riletto i Vangeli di Marco (il più antico), di Matteo e di Giovanni, anch’egli israelita anche se le sua parole sono state tra quella alla base di tante persecuzioni. Per Ratzinger fu una parte dell’aristocrazia del Tempio a essere responsabile della morte di Gesù, ai quali si unirono una parte dei sostenitori di Barabba. Repubblica, in un articolo firmato da Giancarlo Zizola, riporta anche il punto di vista ebraico come proposto da Chaim Cohn, giurista della Corte Suprema di Israele, che mette in primo piano il ruolo svolto dai romani occupanti. Nei prossimi giorni, con l’uscita del libro, e con la visita del papa alle Fosse Ardeatine, ne riparleremo ampiamente.

Emanuel Segre Amar

3 marzo 2011