Perché dobbiamo tradurre il Talmud in italiano

Curiosità, soddisfazione, entusiasmo e, addirittura, offerte di collaborazione: queste le principali reazioni all’annuncio di una traduzione italiana del Talmud Babilonese. Ma, sia in ambito ebraico che non ebraico, non sono mancate reazioni di segno negativo, alcune addirittura di carattere decisamente ostile: “con tutti i problemi di bilancio che ci sono in Italia si vanno a spendere soldi per far contenti gli ebrei, che i soldi ce li hanno…”; “un governo traballante l’ha fatto per garantirsi l’appoggio degli ebrei”, e così via. Altre osservazioni critiche sono però basate su perplessità e argomenti degni di attenzione, sollevando questioni di principio, di senso, di opportunità: è possibile tradurre il Talmud? a chi serve questa traduzione? Che ci fanno gli italiani? E’ il Talmud uno strumento idoneo per una mediazione culturale? Si tratta di una necessità o di una priorità culturale dell’ebraismo italiano? Ha senso spendere così tanto per una traduzione mentre si potrebbe investire su altre urgenze… Infine è stata posta una questione dalle forti implicazioni etiche e politiche: è lecito usare fondi pubblici esponendosi a “ricatti” politici ? Di tutte queste cose si vorrebbe discutere qui di seguito, premettendo che l’obiezione e la discussione sono certamente benvenute, e a maggior ragione quando si parla di un testo come il Talmud che è costruito sulla discussione e sulle obiezioni. Il primo punto da mettere in evidenza è che ci si è dimenticati che il Talmud (letteralmente: insegnamento, studio) è il testo fondamentale della Torah orale (la tradizione sacra trasmessa a voce per secoli, accanto a quella scritta della Bibbia), la base dell’ebraismo rabbinico, una delle anime essenziali dell’ebraismo. L’oblio del ruolo del Talmud, fenomeno che riguarda tutto il mondo ebraico moderno (emancipato e assimilato), assume un particolare significato qui in Italia, dove è stata realizzata la prima edizione completa stampata del Talmud. Luogo di studio appassionato e di diffusione del Talmud nei secoli passati, l’Italia è anche il luogo della repressione e della persecuzione, dal rogo del 1553 fino alla proibizione sistematica del suo studio: non si potevano tenere in casa o a scuola copie di questo libro. I nostri antenati fecero di necessità virtù elaborando strategie sofisticate per continuare a studiare il Talmud usando testi che lo citavano. Il distacco forzato ha però creato una frattura che, con l’arrivo dell’emancipazione, ha contribuito a diffondere l’idea che la base dell’ebraismo sia la Bibbia (il che è vero) e che tutto il resto sia secondario (il che non è vero, basti pensare al significato della Torah orale). Nell’approccio tradizionale, che era anche quello delle scuole italiane, la Bibbia, specificamente la Torah scritta, era il libro di studio elementare, propedeutico, per passare appena possibile ai testi della tradizione orale. Su questi testi si passavano le giornate di studio e alla Bibbia si tornava passando attraverso il Talmud. E’ un ribaltamento di prospettiva tra Torah orale e Torah scritta, che oggi può sorprendere. Ma se sorprende vuol dire che si è perso, almeno da queste parti, il modo fondamentale di rivolgersi alle fonti che era quello che dava alla Torah orale la priorità. L’emancipazione ha invertito l’ordine, prima la Bibbia poi, in qualche modo, il resto. In Italia questa inversione ha investito anche le scuole rabbiniche, con tutte le conseguenze possibili. Se il rabbinato italiano degli ultimi due secoli sarà ricordato per il suo contributo culturale lo sarà per l’esegesi biblica, non certo per contributi talmudici quasi assenti. Questo è il punto dove stiamo e c’è da chiedersi se sia giusto che sia così. È opportuno segnalare che sul piano dell’investimento divulgativo, cinquanta anni fa i rabbini italiani, tutti insieme, sono riusciti a produrre una nuova traduzione della Bibbia. Della Torah orale è stata tradotta la Mishnah da rav Castiglioni, che morì nel 1911. Un secolo fa. Un secolo di buco, che forse è il caso di colmare. Venti anni fa con le forze a disposizione (studiosi di Talmud con buona conoscenza dell’italiano) l’impresa della traduzione sarebbe stata impossibile, oggi invece lo è. Non dobbiamo neppure ignorare che l’idea della centralità della Bibbia rispetto alla tradizione orale dipende, da queste parti, anche dall’influsso cristiano che riconosce sacralità alla Bibbia ma fa fatica a tollerare una produzione ebraica autonoma e creativa dopo l’evento che segna il suo distacco dalla radice ebraica. Questo spiega la persecuzione del Talmud e purtroppo spiega anche l’influsso della condanna del Talmud nella mentalità ebraica. Quindi non solo è lecito, ma anche doveroso correggere questa storia. Se è vero che è doveroso correggere questa storia, ha quindi anche un senso etico per chi governa l’Italia investire in un’opera di divulgazione che possa riparare al danno enorme che è stato fatto all’ebraismo e che non torna ad onore della storia italiana. Ma questo espone a ricatti, si dice. In realtà ogni posizione o decisione politica nei confronti degli ebrei non sfugge a discussioni, interpretazioni e deformazioni. Anche la difesa di valori molto alti e per noi irrinunciabili, come il sostegno allo Stato d’Israele o la tutela della memoria della Shoah, non si sottrae a giochi perversi di scambi, pressioni, ricerca di consenso, “lavatrici” di memoria e così via. In ogni caso si impongono cautela e vigilanza, ma queste non devono far dimenticare i valori. L’interpretazione di un giornalista in cerca di scoop e dietrologie, che ha ipotizzato nel caso della traduzione del Talmud una sorta di scambio, non corrisponde a verità: stiamo parlando di una grande operazione culturale che attende da anni la sua progettazione e che impiegherà anni per la sua realizzazione. La prospettiva deve essere nel tempo medio-lungo, in un rapporto con lo Stato come istituzione, non strettamente con uno specifico governo, senza togliere tuttavia la gratitudine per l’attenzione che ci viene ora prestata. Qualsiasi richiesta degli ebrei italiani al proprio governo, che sia locale, regionale o nazionale, dal restauro di una sinagoga all’assegnazione di un immobile, dal sostegno di una fondazione culturale alla pensione per perseguitati, espone all’accusa di scambio. Si agita lo spettro del ricatto per sognare e idealizzare un’asettica attività ebraica in pura autonomia dallo Stato. Sarebbe possibile sopravvivere senza? Forse sì, ma non si capisce a che pro, se contribuzioni analoghe vengono erogate ad altri cittadini o ad altre istituzioni, con una miriade di investimenti di entità enormi rispetto a quello di cui stiamo qui discutendo. Il meccanismo perverso scatta quando il riconoscimento di un diritto o un’operazione meritoria di investimento pubblico si trasformano in uno scambio clientelare; ma non sembra proprio questa la fattispecie in discussione. Occorre poi considerare che da tempo in Italia, come nel resto del mondo occidentale, la cultura ebraica è divenuta attraente e al centro dell’attenzione. Certo, c’è un po’ di moda, ma c’è anche una sincera curiosità per una realtà diversa e troppo a lungo ignorata. Solitamente l’interesse si ferma su opere divulgative, spesso opere apologetiche dove tutto è bello e seducente; un caso speciale è quello della grande curiosità per la Kabbalah che, in effetti, ha un fascino tutto suo. In realtà il Talmud sta dietro a tutto questo: nulla sarebbe possibile se non ci fosse, ma non sarà certo il Talmud a placare la sete di chi vuole “tutto e subito”. In questo senso forse ha ragione chi non considera il Talmud come il “mediatore culturale” più adatto. Certo non è adatto per l’ebraismo in pillole. Ma in una prospettiva di conoscenza seria non se ne può fare a meno. Spesso chi nega l’utilità del Talmud non ne ha mai studiato più di dieci pagine, magari attraverso citazioni di seconda mano, sentendosi però un grande dotto di ebraismo. Un Talmud in italiano servirà a far capire la differenza fra le chiacchiere e la sostanza, fra il fumo e l’arrosto, tra il “Bignami” e il testo base. Porterà un bel po’ di verità, alimenterà una curiosità vera, darà alla Kabbalah il suo posto e all’insegnamento rabbinico il suo posto. Come a suo tempo l’invenzione della stampa ha reso democratica la cultura, come oggi internet diffonde e rende democratica la conoscenza, così le traduzioni recenti del Talmud in ebraico e in inglese, in milioni di copie, hanno reso “democratica” la conoscenza della tradizione orale; così una traduzione italiana del Talmud renderà più democratica la cultura ebraica italiana, o, più semplicemente, ricreerà una cultura ebraica italiana. Secondo qualcuno in Italia esisterebbero delle priorità culturali più urgenti della traduzione del Talmud. Ma come si fa a svalutare a priori un’opera così monumentale, che andrà in mano a tante persone? C’è sempre da diffidare di chi usa l’argomento delle diverse priorità per criticare o affossare un buon progetto. Che escano fuori le alternative, i progetti reali, i budget, e se ne dimostri il loro valore, maggiore di questo progetto. Un progetto questo o, meglio, un’impresa enorme, nelle dimensioni e nelle “conseguenze”: dovranno esser coinvolte tante persone, traduttori, revisori, consulenti di materie varie. Tutti costretti a studiare e produrre in modo ordinato e sistematico; ognuno di loro dovrà a sua volta diventare polo di aggregazione e diffusione, per cinque anni. Se pensiamo a un lavoro sparso in vari centri italiani (e anche in Israele e nel mondo), condiviso su Internet attraverso un portale, possiamo capire l’impatto vitalizzante che ne deriverà. E’ stato anche detto che il Talmud non si può tradurre. Ma chi l’ha detto cosa intende dire? Certo, un testo poetico scritto in una determinata lingua, una volta tradotto perderà buona parte del suo spirito. Fatte le debite differenze, già sappiamo che la Torah scritta tradotta in un’altra lingua perde moltissimo delle sue potenzialità: con la traduzione è come se le si togliesse l’anima o si rappresentasse una sola delle sue anime infinite, una sorta di fotografia in bianco e nero di una realtà a colori. Sappiamo che non si capisce la Torah se non la si studia nel testo originale e se non si entra nel gioco delle sfumature e delle allusioni. Eppure della Torah esistono da tempi remoti delle traduzioni, alcune considerate con poca simpatia dai Maestri ma altre fatte e usate proprio da loro stessi, come i famosi targumìm (traduzioni in aramaico). La traduzione si fa tenendo conto dei suoi limiti e delle sue utilità. Ma se dalla Torah scritta si passa a quella orale, il Talmud appunto, il discorso è diverso. In questo caso le riserve si riducono perché le sfumature e le allusioni (che ci sono certamente) sono secondarie al senso primario e diretto del testo che, non essendo semplice, è da secoli accompagnato da note esplicative e interpretative, i “commenti” (perushim, tosafot ecc.). La traduzione del Talmud non potrà essere solo una traduzione ma sarà essenzialmente una spiegazione del testo originale, che sarà inserito parola per parola. Usando questo sistema di studio, il lettore forse perderà una parte del “gusto” dello studio talmudico, quello di rompersi la testa per capire cosa il testo stia veramente dicendo. Quando c’è la traduzione commentata buona parte del primo lavoro è fatto, ma questo è solo il primo stadio dello studio, perché poi subentrano altri livelli di comprensione per i quali la traduzione non basta. E’ lecito facilitare tanto il lettore? Certo la discussione è aperta, ma il trend di questi ultimi 30-40 anni dimostra che la scelta prevalente è quella di operare nel senso della divulgazione, di spiegare e chiarire. Per questo sono disponibili le grandi opere di rav Steinsaltz, dello Schottenstein- ArtScroll e dello Shas Lublin. La scelta è quella di rendere le cose un po’ più facili per aprire lo studio a quanto più pubblico si possa. Operazione democratica, divulgativa contro una concezione élitaria dello studio. Nulla in realtà potrà mai sostituire lo studio con un maestro o lo studio in coppia (chavruta), ma con un testo disponibile si potranno attrarre decine se non centinaia di studiosi nuovi che grazie al lavoro fatto potranno arrivare facilmente ad acquisire la bekìut, ovvero la conoscenza base del testo (di tipo esteso) propedeutica all’analisi più approfondita (be’iyun). E per chi non se ne fosse accorto, la discussione di questa pagina è già una specie di discussione talmudica.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Pagine Ebraiche, marzo 2011