Voci a confronto
Dopo gli avvenimenti dei giorni scorsi che hanno riempito molte pagine dei nostri quotidiani, credo che sia opportuno riflettere anche su quanto in Italia non abbiamo potuto leggere.
In Francia Bernard Henry Levy, i cui articoli vengono spesso tradotti in italiano, ha pubblicato una interessante analisi sugli accordi firmati tra Fatah e Hamas; troppi nostri commentatori hanno preferito esaltare la “pace” firmata al Cairo, e questa potrebbe essere la ragione della mancata pubblicazione delle sue parole. E mentre Tsahal e polizia israeliana dovevano domenica far fronte a duri attacchi, solo in parte previsti, in Israele alcuni rappresentanti dell’estrema sinistra ebraica scendevano in strada gridando: “Barak assassino, l’intifada vincerà”. Erano pochi, certo, ma queste parole meritano una attenta riflessione, e magari vanno accompagnate dalle dichiarazioni di alcuni drusi, testimoni diretti degli scontri avvenuti sulle frontiere con la Siria e col Libano, che hanno affermato: “la calma manifestata da Tsahal oggi è quel che ha permesso di avere la pace questa sera”, “l’esercito israeliano ha avuto l’intelligenza di essere tollerante e di evitare che la situazione peggiorasse”, ed infine: “non ho visto che una decina di soldati di fronte a migliaia di manifestanti”. Sono tutte parole, queste, che i corrispondenti dei nostri media hanno preferito trascurare.
Quella che stiamo vivendo potrebbe essere un’altra settimana cruciale per il Medio Oriente; ieri re Abdallah II ha incontrato Obama, ed ora, nell’attesa del nuovo meeting Obama-Netanyahu, si cerca di indovinare sia quello che il presidente americano dirà in un suo prossimo discorso molto atteso (ed anche in un nuovo incontro già fissato con le grandi associazioni ebraiche americane), sia quello che il primo ministro israeliano dirà nel suo intervento al Congresso. Utile è inoltre leggere l’articolo firmato da Mahmoud Abbas su Herald Tribune, egli stesso “profugo obbligato a lasciare la sua casa di Safed quando aveva 13 anni”, e ci si renderà forse conto di quanto sia comunque difficile prevedere reali progressi in questo momento. Queste sembrano essere anche le opinioni di David Miller in un articolo pubblicato ancora su Herald Tribune. Anche dopo la lettura di un editoriale pubblicato su L’Osservatore Romano il lettore dovrà arrivare alle stesse conclusioni: se infatti nessuna delle sei condizioni poste da Netanyahu per arrivare a risolvere il conflitto, neppure la seconda, che dice testualmente: “Un accordo di pace deve porre fine al conflitto e alle richieste dei Palestinesi”, è accettabile per il negoziatore Erekat, è evidente la ragione del pessimismo di molti. Della visita del re giordano alla Casa Bianca riferisce attentamente anche Liberal; Obama sarebbe disponibile a benedire il recente accordo tra Fatah e Hamas, ma non sarebbe ancora favorevole alla auto-proclamazione in sede ONU dello Stato di Palestina, con diretto collegamento alle linee-confine del ‘67. Oggi il re giordano sembra essere l’unico fidato alleato arabo rimasto agli USA, ma dovrebbe riflettere sul rischio che tale situazione possa cambiare repentinamente (ndr); lo dimostrano anche le improvvise dimissioni del negoziatore Mitchell, trovatosi abbandonato dal proprio presidente e circondato da un’amministrazione troppo divisa al suo interno. Vincenzo Nigro pubblica su Repubblica un’intervista a el-Arabi, ministro degli esteri egiziano e da due giorni anche segretario generale della Lega Araba; sostiene il diplomatico, nel silenzio consenziente dell’intervistatore, che anche Hamas avrebbe accettato responsabilmente che ci siano negoziati con Israele, pur ammettendo che qualcuno possa essere contrario a ciò. Non una parola gli viene detta da Nigro su quanto sta scritto nello Statuto di Hamas né su quanto dichiarato ancora nei giorni scorsi dai massimi dirigenti di Hamas. El-Arabi sostiene che per Israele trattare con Fatah e Hamas insieme significa riunire in un solo blocco la controparte, e questo dovrebbe assicurare maggiori garanzie di risultati certi con le trattative. Che poi Hamas sia contrario alle trattative è meglio dimenticarlo. L’utilità di questo accordo tra Hamas e Fatah è sostenuta anche da Yasser Rabbo, intervistato da De Giovannangeli su L’Unità, che, per di più, si lascia andare a dichiarazioni del tipo: le recenti rivolte portano democrazia e giustizia, e se alla fine Israele non accetterà di trovare un accordo si cercheranno altre vie non violente. Sarebbe bello per tutti se questa fosse la realtà… Lontano dalla realtà nel suo insieme appare anche Sergio Romano che sul Corriere risponde alla domanda di un lettore che chiede lumi su quanto sta succedendo in Siria e sulle differenze tra il trattamento riservato a Gheddafi e ad Assad. Non sono false le parole di Romano, ma non spiegano in toto la realtà, e verrebbe voglia di suggerire al suo lettore di leggere, sullo stesso tema, quanto scrive Pio Pomba sul Foglio: la politica pericolosissima portata avanti dall’Iran spiega molti degli avvenimenti delle passate settimane, ma ci si ostina tutti a far finta di non vederlo. Pomba arriva addirittura, con frase ad effetto, a chiamare Nakba la missione internazionale in Libia, che di semplice imposizione di no fly zone ha davvero poco. Anche Raineri e De Biase scrivono degli avvenimenti libici, ancora sul Foglio, e nel loro articolo si trova anche un interessante accenno a quanto succederà con le elezioni del 24 luglio in Tunisia: vi è un concreto rischio di una vittoria, anche là, dei fondamentalisti, e magari, subito dopo, di un golpe militare. Manlio Dinucci sul Manifesto descrive, con nessun elemento concreto a sostegno delle sue parole, una struttura paramilitare americana che, con enormi mezzi economici, starebbe allenandosi negli Emirati per proteggere con la forza gli interessi occidentali nel Medio Oriente.
Laurent Zecchini per Le Monde visita un villaggio arabo vicino a Gerusalemme, Lifta, abbandonato dai suoi abitanti nel ‘48; Zecchini usa parole a effetto per descrivere la dolce vita rupestre distrutta dagli israeliani, e, nello stesso tempo, nasconde gli orrori imposti agli stessi profughi palestinesi dagli amici arabi che li tengono rinchiusi, privi di diritti, in campi profughi. Si arriva, in questo articolo, a fare un parallelismo tra l’insegnamento della Shoah e quello della Nakba, proibito dagli israeliani, che dovranno, alla fine, guardarsi nello specchio ed ammettere la grave colpa legata alla nascita del loro Stato.
Altro argomento, in chiusura, troviamo trattato su Avvenire che, richiamando anche un articolo firmato dall’Ambasciatore Sergio Minerbi su Pagine Ebraiche, parla di “promozione” del Papa da parte degli ebrei.
Emanuel Segre Amar
18 maggio 2011