Stanchi di che?
Avrei preferito non essere coinvolto nel recente dibattito sollevato in seguito all’assurda scritta sui muri della scuola ebraica di Roma a opera di qualche invasato insensato.
Chiamato però in causa nel notiziario quotidiano “l’Unione informa” di domenica 29 maggio 2011 da Ugo Volli ( la cui ideologia seguo quasi sempre con attenzione, come quella espressa periodicamente su Israele da altri pubblicisti di carriera, ho l’onere di dover rispondere.
È superfluo convincere Ugo Volli che quanto è accaduto a Itamar (come in altri episodi più o meno simili in passato) costituisce un eccidio brutale, barbaro, efferato da parte palestinese, da condannare e punire con massima fermezza e inflessibilità. Le vittime erano israeliani esattamente come me e quindi fratelli (senza virgolette, caro Volli), uccisi con una barbarie e una ferocia inimmaginabili.
La vita tuttavia continua. Non si può né si deve fermarsi, neppure dopo un tragico episodio come questo. La pace è tuttora lontana, anche se parzialmente più vicina di alcuni anni fa, ma c’è ancora chi si batte per raggiungerla sostenendo i propri diritti senza tuttavia disconoscere a priori quelli della parte avversa. Non è un ritornello riconoscere che anche in questo caso si deve raggiungerla non fra amici, a seguito di un occasionale diverbio, ma fra due popolazioni contendenti, ognuna con le proprie motivazioni, ragioni e pretese.
Su “l’Unione informa” ho letto in passato alcune brevi affermazioni di collaboratori e rappresentanti dell’ebraismo italiano (tralascio i nomi e cito pochi brani unicamente per motivi di spazio) : “… siamo stanchi di sentire che gli abitanti degli insediamenti continuano a essere un ostacolo alla pace, soprattutto per il loro diritto di allargare le proprie abitazioni per dare spazio alle famiglie che crescono…”.
“… Nei territori occupati in seguito alla guerra si svilupparono insediamenti che in gergo giornalistico divennero ben presto colonie. Si può su questo punto criticare la politica di insediamento dei governi israeliani successivi. Tuttavia la categoria semantica «colonie» resta problematica. Il potere coloniale è ben altra cosa: si fonda su una metropoli e sulla installazione di territori immensi e lontani, in una discontinuità storico-geografica, di cui si sfruttano le risorse e dai quali si ricavano redditi…”.
“…la parola “colono”… È un uso del linguaggio così inaccettabile e velenoso da meritare una riflessione, al di là del rifiuto dell’odio. Non si tratta solo di un linguaggio giuridicamente sbagliato e fondamentalmente razzista, vi è in esso un attacco all’identità ebraica. C’è in esso qualcosa di antiebraico, più generale di tutte le spiegazioni che si possono dare sul fatto che Giudea e Samaria sono territori contestati e non territori occupati; che non esiste nessun diritto legale palestinese a tutte le terre al di là di una linea armistiziale che fu stabilita nel ’49 con un accordo a Rodi in cui se ne escludeva esplicitamente la funzione di confine internazionale…”.
Rispondo.
Stanchi di che? Di ascoltare e riconoscere la verità sul fatto che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania costituiscono un notevole ostacolo (non l’unico, ne esistono altri da parte palestinese) al raggiungimento di un accordo? Cosa devono esprimere i palestinesi che in 44 anni di sottomissione hanno visto giorno dopo giorno crescere e svilupparsi nuovi insediamenti in un territorio destinato dall’inizio (leggi: dalla fine della Guerra dei Sei giorni) alla difesa militare d’Israele e non ad una base espansionistica per una popolazione mossa solo da visioni storiche oltranziste (oltre a puri calcoli economici) e quindi inaccettabili, non diverse da quelle sollevate da settori del mondo arabo nei confronti di Israele. Non dimentichiamo il fatto che Israele ha accettato i confini assegnati nel ’48-’49 e per un ventennio (fino al ’67) non ha sollevato pretese né speranze di future espansioni da attuare alla prima occasione. E non dimentichiamo intenzionalmente che i palestinesi non sono solo gli assassini delle vittime di Itamar.
È auspicabile anche che alcuni opinionisti ebrei italiani, che sulle colonne dei vari periodici ebraici (e su giornali di indubbio servilismo all’attuale governo italiano) non continuino quindi a sorvolare su ogni espressione di diritto all’indipendenza palestinese, necessaria oggi allo stesso Stato d’Israele, risollevando nei loro scritti spesso e in modo talvolta fanatico formule storiche e religiose affatto consone all’epoca attuale in generale ed agli ultimi avvenimenti medio orientali in particolare.
Da qualunque angolo visivo si voglia esaminare ed interpretare la continuazione del “controllo” israeliano su territori assoggettati inizialmente per fini militari, successivamente e unilateralmente per stanziamenti civili fin dalla giusta guerra dei Sei Giorni, non c’è dubbio sul fatto di paragonarlo ad una forma di moderno colonialismo, anche se non simile al modello classico, caratterizzato quest’ultimo fra l’altro dalla distanza geografica fra i confini del “colonizzatore” e quelli del “colonizzato”. È di fatto colonialismo il controllo e l’assunzione di risorse geografiche ed economiche, l’espropriazione di terreni, la limitazione di settori del commercio, il reclutamento di mano d’opera a bassi livelli economici, la creazione di immediati servizi logistici per ogni insediamento, l’ostacolo applicato ai movimenti interni della popolazione assoggettata, il generale atteggiamento di superiorità espresso verso la cultura e le tradizioni del colonizzato, l’aggiornamento dei confini dello Stato nelle carte geografiche ufficiali.
Essere ebreo non indica solo manifestare giustamente contro i nemici dello Stato d’Israele, le loro minacce, il loro terrorismo e la loro violenza, né soltanto realizzando la propria aliyà o sentendosi partecipi dell’esistenza dello Stato ebraico tramite supporti economici, investimenti per acquisti di abitazioni private, scambi turistici o sventolando la bandiera israeliana nel Giorno dell’Indipendenza.
Essere ebreo impegna anche a non accettare definitivamente l’occupazione e la conquista israeliana della Cisgiordania, ancora attiva dopo 44 anni dalla fine della guerra dei Sei Giorni, ed a riconoscere con dignità il diritto di ogni essere umano di qualunque provenienza (in Israele ed in ogni angolo del mondo) ad insorgere con la propria voce contro la sottomissione, l’umiliazione, la dipendenza e la discriminazione prolungate di un’intera popolazione desiderosa, non meno di Israele, di veder riconosciuta la propria indipendenza.
Il mio consiglio (non necessariamente accettabile) è di attenersi a quanto succede da 44 anni da ambo le parti dei confini controversi e di non applicare ad altri ebrei, da destra a sinistra e con troppa baldanzosa auto-sicurezza, il termine “razzista”.
Sono nato all’epoca delle leggi razziste, israeliano da più di 50 anni, più che fiero dello Stato d’Israele a cui appartengo, ma a differenza di altri non dimentico mai contro chi e quanto hanno dovuto lottare gli ebrei per ottenere il diritto alla propria indipendenza.
Sandro Natan Di Castro, Haifa
31 maggio 2011