Voci a confronto

Menù slim per le notizie, oggi. Ci sono giorni in cui il redattore si trova dinanzi ad una mole impressionante di articoli, quindi di voci, numeri, dati e date, dentro i quali rischia di annaspare alla ricerca di un filo conduttore per il cui tramite muoversi verso il mare tempestoso e tormentato delle sollecitazioni del momento. Non è impresa facile leggere i giornali e il commentarli. Non solo perché con le proprie parole si rischia di scontentare sempre qualcuno (senza peraltro che sussista l’obbligo di un unanimismo, che in sé non è mai una virtù) ma anche e soprattutto perché sussiste il mito, che mai fu più infondato, di una “oggettività” dei fatti della quale la carta stampata e, più in generale, il variegato (e variopinto) mondo della comunicazione, dovrebbero essere copia assorbente, rendendone asetticamente conto. Resiste e, semmai, si diffonde pervicacemente l’idea che debba comunque darsi una sola lettura dei medesimi eventi. Che è direttamente derivata dal falso principio per il quale i fatti siano facilmente separabili da ciò che chiamiamo opinioni. E che le interpretazioni, ovvero il conflitto tra di esse, sia in sé un male di cui non solo dolersi ma nei confronti del quale adoperarsi. Nulla di più discutibile in tutto ciò. Poiché in una società pluralista l’articolazione e la differenziazione delle opinioni, che inevitabilmente, all’atto del confronto, strideranno poi tra di loro, producendo quelle scintille che chiamiamo per l’appunto «conflitto», sono il fondamento della stessa evoluzione del pensiero collettivo. Non esiste, da questo punto di vista, una contrapposizione tra stabilità, ovvero ordine e sicurezza, e confronto critico. La varietà culturale e sociale implica che esistano non solo identità ma anche interessi confliggenti. L’innovazione è per sua natura conflittuale poiché propende per revisionare criticamente i paradigmi trascorsi, creando tensioni, e a volte anche torsioni, nel presente. Mi pare quasi inutile ricordare che in ciò riposa il senso concreto del pluralismo. Semmai è proprio l’appiattimento su un unico solco interpretativo, egemonizzato in genere da una ristretta categoria di guardiani del pensiero, a costituire l’antitesi di ciò che pensiamo quando parliamo di «società aperta». E di ciò si alimentano i fondamentalismi culturali, qualunque (e ovunque) essi siano. Dopo di che il vero orizzonte è il capire dove si collochi la mediazione tra le diverse sensibilità. In quanto il fondamento delle società avanzate è la percezione della complessità che le connota, di cui per l’appunto la comunicazione pubblica, in tutte le sue varianti, è nel medesimo tempo uno strumento di diffusione ma anche di interpretazione. Fare informazione, quindi, è un impegno di particolare delicatezza poiché richiede costantemente il trovare un punto di equilibrio tra i propri convincimenti, gli eventi e le idee collettive con i quali ci si confronta, la pluralità dei destinatari della propria comunicazione e il campo di forze alle quali chiunque comunichi ad una qualche platea inesorabilmente soggiace. Andrea Minuz su il Riformista si intrattiene con Luca Zevi, progettista del costituendo Museo della Shoah di Roma, a Villa Torlonia, sull’urbanistica in divenire e sul rapporto che lo spazio intrattiene con la memoria. La discussione sui «buoni usi della memoria» è oramai aperta da tempo e non riguarda solo gli specialisti o gli studiosi, riallacciandosi semmai al tema che abbiamo raccolto in esordio – il discorso sul resoconto informativo -, a quello di come si comunica il passato per vivere, possibilmente meglio, il presente. Si tratta quindi di una riflessione collettiva, che chiama in causa le modalità, gli strumenti, i canoni e i criteri che adottiamo per riflettere su ciò che siamo utilizzando, come medium identitario del presente, una qualche idea condivisa dei nostri trascorsi. L’architettura e, più in generale, l’urbanistica, insieme a molte altre discipline, stanno da tempo ragionando in materia. Zevi, con il suo volume sulle «Conservazioni dell’avvenire» (Quolibet, Macerata 2011), cerca di liberare le rappresentazioni del passato dal falso bivio tra «monumentalizzazione» del ricordo, cristallizzazione di ciò che fu e sua riduzione ad effetto scenico da un lato, così come performance virtuosistica, ossia elaborazione individuale e narcisistica dall’altro (l’una e l’altra sono due modi per colpire l’immaginazione emotiva dell’osservatore, senza però sollecitarne la riflessione critica e l’immedesimazione empatica). Così anche Elena Pirazzoli dove in un denso e ricchissimo libro, «A partire da ciò che resta. Forme memoriali nell’arte e nell’architettura del secondo Novecento» (Diabasis, Reggio Emilia 2010), si interroga sul rapporto tra i simboli e le identità attraverso l’indagine di merito sui luoghi della memoria, sia sul loro stato di preservazione come su quello di trasformazione e così via. Per entrambi gli autori, sulla scorta della medesima tradizione ebraica, il passato pare avere qualcosa da dirci solo se è vissuto come un elemento da scoprire attraverso l’esperienza di ciò che di esso rimane. Siamo ben lontani, quindi, dall’idea di un feticcio da canonizzare. Non paiano peraltro tali affermazioni come un puro esercizio fine a sé, sterile esibizione di bel pensiero, contrapposto alla concretezza dei fatti, poiché sono questi ultimi che si danno ad ognuno di noi, in quanto osservatori del tempo che viviamo, attraverso la prevalenza dei codici che usiamo per razionalizzarne la manifestazione ai nostri occhi. Il modo in cui ciò si fa è quindi strategico per la costruzione di ciò che pensiamo di essere. Un altro articolo sul Riformista, a firma di Giancarlo Mancini – e i lettori non ce ne avranno se stiamo richiamando le medesime testate – si sofferma su una piccola notizia di cronaca, la morte di Hans Keilson, la cui notorietà letteraria gli è pervenuta solo sulla soglia dei cent’anni, essendo da noi ancora quasi sconosciuto. Di origine tedesca, ebreo, nato nel 1909, era fuggito in Olanda da dove poi l’avanzata delle armate tedesche, nel 1940, lo aveva raggiunto. Lì si era impegnato nella Resistenza per poi, a guerra finita, dedicarsi al suo ruolo professionale di medico psichiatra. In quest’ultima veste si è a lungo dedicato allo studio e alla cura dei traumi procurati ai bambini separati dai genitori inviati nei Lager nazisti. Anche grazie a tale esperienza ha fatto derivare la sua produzione letteraria, ed in particolare il romanzo «La morte dell’avversario» (Mondadori, Milano 2011), nel quale riflette, per interposti personaggi, sia pure di fantasia, sulla paura come emozione e sensazione del presente. Quanto alla più stretta attualità va detto che, purtroppo, continua a manifestarsi nella sua angosciante carica di violenza. La «primavera araba» rischia di trasformarsi, con il trascorrere del tempo e la mancanza di soluzioni negoziate, in un autunno delle speranze. Prevedibile esito in difetto di qualsiasi politica che non sia quella repressiva, dei moti che hanno vivacizzato e sconquassato l’Africa maghrebina e parte del Medio Oriente arabo. Avvenire e il Messaggero ci danno conto degli effetti del conflitto inter-tribale nello Yemen (qualcosa che ricorda le dinamiche in corso in Libia), dove a Sana’a, la capitale, lo scontro tra le forze fedeli al Presidente Ali Abdullah Saleh e i miliziani della confederazione tribale degli Hashid, quest’ultima capitanata da Sadeq al Ahmar, sembra avere trasformato alcuni quartieri della città in un teatro di guerra. In Siria le cose non sono da meno, per come ci informano Camille Eid sempre su l’Avvenire e Cecilia Zecchinelli per il Corriere della Sera, dove gli uomini di Bashir Assad continuano la durissima (non ne dubitavamo) repressione contro le manifestazioni della dissidenza. Ieri una quindicina di civili è stata uccisa a Rastan, città della Siria centrale, vicina a Homs, da giorni sotto assedio per parte dell’esercito, che non disdegna il ricorso all’artiglieria. Da marzo almeno 10mila manifestanti sono stati imprigionati e la violenza ha coinvolto anche i minori, come purtroppo di prassi in una situazione dove la spietatezza non fa difetto ai più. Non se ne uscirà molto facilmente da questo stato di cose, trattandosi di una situazione nei fatti bloccata. Le oligarchie al potere nei paesi arabi ben difficilmente cederanno il potere e, con esso, i privilegi dei quali godono. Non di meno, le opposizioni non hanno la capacità di assumere una forma stabile, in grado di incidere durevolmente sui processi che le proteste dei mesi scorsi hanno avviato. Da ciò deriva un quadro tra i meno invidiabili: popolazioni scontente ma anche divise, governanti decisi a continuare nell’uso indiscriminato del bastone. Se le cose stanno davvero così è assai improbabile che le fragili società arabe possano sperare di farcela da sole.

Claudio Vercelli