Voci a confronto
Ma insomma, cosa dobbiamo pensare dei tumultuosi mutamenti che si sono verificati nel Mediterraneo, e in parte del Medio Oriente, in questi ultimi mesi, quelli che identifichiamo, più o meno propriamente, come la «primavera araba»? Quali sono stati gli indirizzi di fondo, i moventi, le cause e gli effetti più significativi? Soprattutto, a cosa porterà questo tramestio, se è prevedibile un qualche esito fin da adesso? Sono quesiti, questi – come tanti altri, per i quali invece qui non abbiamo né lo spazio né il tempo di fare formulazioni e ipotesi di risposta – che si accompagnano a fatti accaduti o, per buona parte, ancora in corso. L’indirizzo dei quali, va detto da subito, non è unitario, come sottolinea, con un tono perplesso e cogitabondo, Andrea Margelletti su Liberal. In altre parole: i sei mesi trascorsi, iniziati con il suicidio di un giovane ambulante tunisino, evento a partire dal quale si è dipanata un’ampia matassa di proteste popolari, il più delle volte sfociate in aperte e conclamate ribellioni, non si offrono all’altrui attenzione con un segno politico unitario. La qual cosa indica anche che non c’è (ancora) una regia o, se si preferisce, non esiste un burattinaio che possa muovere i suoi pupazzi, con o senza fili, a proprio piacimento. Il tutto è ancora troppo ingarbugliato e ogni gruppo dirigente nazionale si mostra così ripiegato sui suoi affanni, ovvero sui fenomeni di delegittimazione che lo chiamano in causa, da non potere né volere intervenire sui fatti altrui. Questo non esclude di certo l’ombra delle sobillazioni, ma non fa divenire neanche troppo grande la sua proiezione. Il che non ci pone al riparo, per il futuro, da possibili evoluzioni in tal senso, ma tant’è, almeno per il momento. Partiamo quindi da questo primo punto: la spontaneità delle manifestazioni popolari e la violenza delle risposte istituzionali. Sincere le prime, non meno autentiche – purtroppo – le seconde. Laddove c’era un esercito sufficientemente forte i satrapi di turno (Ben Ali, Hosni Mubarak), sono stati deposti più o meno “doucement”; laddove questo non c’era (Yemen, Libia ma anche in parte la Siria) è invece intervenuta la durissima fazionalizzazione della lotta, che prosegue tra violenze e morti. Ci viene da pensare a ciò, ed altro ancora, leggendo gli articoli di Gigi Riva su l’Espresso, di Alberto Stabile per la Repubblica, di Pierre Chiartiano su Liberal, di Alberto Negri su il Sole 24 Ore, di Alain Frachon e Khaled Khalifa per le Monde, dove si parla della truce Siria del vampiresco Bashar al Assad (1.300 morti in tre mesi, non un segno di chiaro disappunto, a parte le lacrime di circostanza, dalla cosiddetta «comunità internazionale»), l’oculista dallo sguardo cieco; di Soli Ozel, sempre su l’Espresso, dove invece ci si sofferma sulla vittoria di Erdogan e del suo «Partito per la giustizia e lo sviluppo», con un buon bottino elettorale che non gli permetterà tuttavia di avere quella maggioranza assoluta di seggi in Parlamento che gli sarebbero necessari per redigere e fare approvare una nuova Costituzione (del nesso tra i due paesi, che confinano, ne parla il Foglio interrogandosi su «quel che è accaduto davvero nel nord della Siria»); di Luisa Arezzo, su Liberal, dove ci si interroga sullo stallo libico (a che punto è la notte?); dell’ex generale Mario Arpino, a proposito dell’Egitto; di Osvaldo Baldacci su un caotico e anarcoide Yemen; di Antonio Picasso nel merito di una Tunisia più libera e più instabile, sempre sullo stesso giornale. Se si vuole usare una metafora le sollevazioni arabe, la «rivoluzione dei gelsomini», si è manifestata come l’esplosione, sotto agitazione, del contenuto di un certo numero di bottiglie, ognuna d’esse ricolme di un liquido di natura diversa ma accomunate dall’appartenere allo stessa cassa. La pressione è stata tale da far sì che, in maniera pressoché simultanea, saltassero i tappi costituti dalle oligarchie politiche che ne controllavano la “stabilità”. A tale riguardo il ministro degli Esteri Franco Frattini su il Mattino parla, opportunamente, di «paesi che hanno riscoperto la politica» (fenomeno al quale, come egli stesso sottolinea, dovrebbe corrispondere la nostra capacità di europei di dare una risposta unitaria e, soprattutto, costruttiva: alternative non ce ne sono, peraltro, a meno che non si adotti l’atteggiamento degli struzzi). Ciò che ne fuoriuscito, magmaticamente, è materia diversa a seconda delle bottiglie considerate. Poiché diverso era, per l’appunto, l’originario contenuto. La meccanica degli eventi, quindi, è stata identica per tutti o comunque molto simile, ma gli effetti saranno prevedibilmente diversi a seconda dei paesi presi in considerazione. Di comune, alle diverse rivolte, c’erano le motivazioni e i protagonisti: nel primo caso una miscela di richieste economiche e politiche, esemplificate dal binomio «pane e democrazia»; nel secondo, il forte protagonismo dei giovani, mobilitatisi, come già è avvenuto in altri luoghi, attraverso il passa parola dei moderni mezzi di comunicazione. Ribellioni culturali, in buona sostanza, di cui ci dà un ritratto il buon articolo di Alberto Mucci su il Foglio, una testata che ha il pregio di seguire con continuità gli eventi del mondo arabo. Mai va dimenticato, infatti, che abbiamo a che fare con società demograficamente giovani, dove prevale numericamente quella coorte generazionale che è compresa tra i 15 e i 35 anni d’età (molto spesso i 2/3 della popolazione), con un buon grado di scolarizzazione e aspettative non troppo diverse da quelle nutrite dai loro coetanei nelle società occidentali, quanto meno per quello che concerne gli obiettivi di mobilità professionale, sociale come di autorealizzazione. L’esposizione ai circuiti di informazione, al loro linguaggio universalista e tendenzialmente “sedizioso”(ovvero in grado di sollecitare a comportamenti imitativi, seducendo e invitando a identificarsi senza per questo potere mantenere nessuna promessa), insieme alla crescente stanchezza nei confronti del fatalismo dei padri e al dispotismo delle camarille di governo, sono stati fattori determinati in quelle che si sono da subito qualificate soprattutto come ribellioni generazionali. Leggere gli eventi in corso come rivolte degli “straccioni” è quindi quanto di più errato ci sia poiché le società arabe e musulmane, dove fortissima è la polarizzazione economica e scarsi sono i diritti civili e politici, questi ultimi filtrati dalla volontà di élites dirigenti autoreferenziate, gelose dell’esclusività del loro potere, hanno comunque alle spalle una traiettoria evolutiva. Uno dei paesi indice di questo percorso, pur ovviamente nella sua specificità nazionale, è l’Iran di oggi, in parte teocratico ed in parte no, di cui ci parla Giulio Meotti su il Foglio quando racconta del nuovo «piano di sicurezza morale», le orride disposizioni in materia di comportamento pubblico decretate dalla teocrazia sciita, guidata da Ali Khamenei, contro la società civile metropolitana, quella dell’«onda verde» di quasi due anni fa. Si sfati il mito, una volta per sempre, di avere a che fare con società povere, se con ciò vogliamo rifarci alla miseria più cruda. Non di meno, si eviti di cogliere solo gli aspetti di “ritardo culturale”, rilevando le differenze ma non certe analogie con le società occidentali. Si tratta di una lettura che poteva andare bene nell’età della decolonizzazione, e che in parte si attaglia ancora per alcune realtà dell’Africa sub-sahariana, ma non certo per le comunità nazionali arabe. Piuttosto, ed è questo il divario drammatico, a tratti incolmabile, siamo in presenza di paesi dai confini politici e dai connotati culturali spesso incerti, attraversati al loro interno da fratture multiple, a partire da quella che separa le classi più ricche, quelle che controllano il potere economico e politico, organizzate come clan corporati, capaci di escludere il resto della popolazione da qualsiasi reale beneficio. Il cortocircuito è avvenuto a questo livello. La mancanza di un “ascensore” che garantisse a giovani acculturati un’adeguata mobilità sociale, la cristallizzazione dei poteri, la fragilità delle istituzioni pubbliche, la dolce istigazione dei mezzi di comunicazione sono fattori che hanno congiurato nel big crash dei mesi scorsi. È come un vetro che si è infranto in una miriade di piccoli frammenti. Ricomporli, se permangono delle differenze di accesso al mercato così pronunciate, che escludono interi segmenti delle collettività da un accesso ragionevole, sarà una fatica di Sisifo. Per questo non sappiamo dirci a quale punto è giunta quella «primavera araba» che, varcata la soglia dell’estate, quando le foglie verdi già iniziano a rinsecchire, rischia di implodere in sé. Poiché molte cose non sono chiare ma è senz’altro sicuro che se a domande collettive di tale genere non si danno risposte convincenti il rischio è che l’instabilità ci accompagni, con i suoi deteriori frutti, negli anni a venire.
Claudio Vercelli
17 giugno 2011