Voci a confronto
Fino a che punto ci si può esprimere contro o avverso a qualcosa o qualcuno senza che ciò si trasformi in una calunnia o, comunque, in un atteggiamento deliberatamente diffamatorio e ostile, tale da pregiudicare l’altrui onorabilità e integrità mettendone, eventualmente, in discussione la stessa sicurezza fisica? Di riflesso, qual è lo spazio del pregiudizio e dove inizia invece quello della libera discussione? E ancora, quando e dove finisce l’opinione iniziando la lesione dei diritti altrui? Il terreno dei cosiddetti «reati di opinione» è di per sé assai incerto, una sorta di area delle sabbie mobili, una sgradevole palude, poiché in esso nulla può essere facilmente definito aprioristicamente e neanche, a volte, a posteriori. Si tratta di un salto in alto in un gioco dove la posizione dell’asticella cambia continuamente. La stessa espressione è ossimorica, mettendo insieme due cose che parrebbero in sé antitetiche: il reato, come tale, che è una condotta antigiuridica, ossia un comportamento (o una omissione di condotta, laddove quest’ultima sarebbe invece obbligatoria) che è chiaramente volto contro la legge; l’opinione, che costituisce invece la manifestazione di una idea in assenza di precisi elementi di riscontro, tali da fornire una certezza assoluta e, come tale, assodata e quindi condivisa. Nel primo caso c’è a fondamento la certezza comprovata di un agire negativo, ossia che contravviene alle norme vigenti; nel secondo l’incertezza che si accompagna a un dire (e anche ad un pensare) il cui esercizio è parte integrante della libertà dei moderni. L’anello mancante, non a caso, è il contenuto di una norma che possa stabilire, a tavolino, una volta per tutte, dove finisca l’esercizio di una libertà e dove inizi la consapevole diffamazione. L’assenza di una certezza che si faccia legge non è casuale, essendo le nostre società libere proprio perché basate sulla circolazione di un grande numero non solo di informazioni certe e comprovate ma anche di pensieri – e manifestazioni di pensiero – assolutamente opinabili nelle loro forme come nei contenuti. Aggiungiamo che a salvare capra e cavoli non basta di certo la buona fede, che nel diritto corrente non è attenuante evocabile se non a determinate, calcolate condizioni. Le quali quasi mai valgono per le condotte reputate deliberatamente oltraggiose. Ci poniamo su questo ordine di riflessioni, dilemmatiche e un po’ amletiche, leggendo, per la firma di Luigi Offedu su il Corriere della Sera per quella di Luciano Gulli su il Giornale, di Andrea Tarquini per la Repubblica, di Roberto Arduini su l’Unità ma anche la Stampa, dell’assoluzione da parte del tribunale distrettuale di Amsterdam di Geert Wilders, il politico olandese che aveva paragonato l’Islam al nazismo e aveva chiesto che il Corano fosse posto al bando. Il dispositivo della sentenza si richiama al fatto che le affermazioni del giudicato possono essere «insulti scioccanti e al limite dell’accettabilità legale», ossia «rozze e denigratorie» ma rientrano «nell’ampio contesto di un dibattito sociale e politico in una società multi-culturale», non costituendo un pericolo – almeno non immediato – per ciò o coloro che ne sono fatti destinatari. Se così stanno le cose l’altrui dire non costituisce elemento penalmente perseguibile poiché non esiste una correlazione diretta tra il dichiarare certe cose, queste cose, è l’incitare alla violenza, ravvisando semmai in quest’ultimo aspetto la soglia varcata la quale non si è più nell’ambito delle manifestazioni di idee ma si trapassa in quello dell’istigazione a commettere un reato. I giudici non hanno ovviamente fornito una valutazione di merito sulla veridicità di quanto sostenuto dalla parte reputata ledente dall’accusa, poiché non era questo il senso del loro operare, ma hanno deliberato sul grado di accettabilità sociale di certe dichiarazioni pubbliche, ovvero sulla loro sostenibilità in un contesto in mutamento quali sono le comunità nazionali multietniche. Da questo punto di vista hanno svolto il loro lavoro non indagando e opinando sui contenuti bensì sui riflessi che questi ultimi hanno rispetto ad uno specifico contesto, quello della società olandese di oggi. Peraltro lo stesso tribunale ha rilevato la difficoltà, ossia il campo di imponderabilità, in cui si è dovuto orientare, reputando comunque più che discutibili le affermazioni di Wilders, il quale «si muove sul confine di ciò che è comunemente accettato dalla legge penale». La sentenza, tuttavia, ha usato come discrimine fondamentale il fatto che l’imputato abbia criticato «non i musulmani come individui bensì l’Islam». In altre parole, non affermando qualcosa contro concrete persone fisiche bensì nei confronti di un insieme di pensieri, l’islamismo, non si dà la fattispecie giuridica di «incitamento all’odio». L’intervista di Stefano Montefiori, sempre sul Corriere della Sera, ad Ayaan Hirsi Ali, aiuta il lettore a contestualizzare politicamente il significato della sentenza. Sulle affermazioni di Umberto Veronesi relative alla «purezza» (un termine, ad onore del vero, che se usato per gli esseri umani fa sempre un po’ accapponare la pelle) degli amori omosessuali, tali poiché motivati da null’altro che non sia il piacere dello scambio gratificante, si segnala il bell’articolo, in formato di lettera, di Angelo Pezzana su Libero, che centra il bersaglio. L’autore rileva come il problema della lotta contro l’esclusione (materiale, fisica e morale, ovvero civile) di un gruppo non possa mai essere affrontato ribaltando il segno assoluto del giudizio ma, piuttosto, facendo sì che quelle scelte che sono alla base dell’emarginazione non siano più oggetto di un giudizio preventivo (letteralmente: un “pregiudizio”). Si tratta piuttosto di accettarne la loro ovvietà e condivisibilità, poiché parte di uno spettro di condotte che appartengono al campo non solo della liceità ma anche e soprattutto della varietà del modo di viversi come persone, nella propria individualità come nel contesto delle relazioni sociali. Chi è vittima dell’omofobia, come di qualsiasi atteggiamento pregiudizioso, non è in sé né migliore né peggiore d’altri in virtù di ciò che gli è ingiustamente contestato: semplicemente è il portatore di convincimenti, atteggiamenti e comportamenti che non sono – o non dovrebbero più essere – destinatari di qualsivoglia tipo di riprovazione, fosse anche solo verbale. Insomma, essere gay non implica nessuna eccezionalità ma piuttosto un attestato di normalità, anche se a certuni ciò che suona oggetto di vantata distorsione è proprio il “comune senso della normalità”, intesa come una spada di Damocle da usare contro tutto quello che si differenzia dalla pedissequa adesione ad una morale tanto blindata quanto claustrofobica. Dal che emerge come il vero problema non siano mai i cosiddetti «diversi» ma coloro che intendono – e contribuiscono a costruire – l’idea di peculiarità personale come uno stigma sociale. Sulla stessa scia anche il «Buongiorno» di Massimo Gramellini per la Stampa. Sui fatti mediorientali rimandiamo alle lettura di quegli articoli che ci commentano le nuove tensioni, al confine siro-turco, di cui si trovano ampi riferimenti in Davide Frattini su il Corriere della Sera, Umberto De Giovannangeli per l’Unità, di Angelo Speziali su Libero, Carlo Panella per il Foglio e sul Financial Times. Ancora sul Foglio si veda poi un ampio articolo Marco Pedersini riguardo al cupo regime siriano. Infine, cambiando completamente toni (e recedendo un po’ dal rigore degli articoli di cui sopra), tra gli scritti improntati a falsa malizia e calcolati ammiccamenti (della serie: abbiamo capito come funziona il mondo), segnaliamo, per mero gusto di cronaca, non avendo altre urgenze in un giorno in cui la rassegna stampa non è affaticata da notizie da rincorre, la recensione di Davide D’Amario su Rinascita, quotidiano “rosso-bruno”, del testo «Questione ebraica e socialismo reale», una raccolta «militante» di documenti dell’antisemitismo sovietico.
Claudio Vercelli
24 giugno 2011