Voci a confronto
Venticinque e più anni fa, per celebrare le sorti magnifiche (ma non progressive) di un governo, quello di Bettino Craxi, molto propenso all’autoapologia, si diceva del nostro paese che «la nave va», intendendo che sotto l’autorevole curatela dell’allora premier l’Italia fosse destinata a festosi e fastosi lidi. Che così non fosse ce ne saremmo accorti, letteralmente a nostre spese, qualche anno dopo quando, nel 1992-93, l’esecutivo presieduto da Giuliano Amato dovette applicarsi in una manovra di revisione della finanza e del bilancio pubblici a drastico impatto, poiché i conti dello Stato erano sull’orlo della rovina. O come si dice più elegantemente oggi, a rischio default. Viene in mente questo improprio e irriguardoso parallelo con quella che è oramai storia repubblicana nel leggere l’articolo di Franco Marta su l’Avanti (testata della diaspora socialista) sui poco fausti destini della Flottilla II. Laddove la nave, anzi le navi, non vanno. A trasformare la “gioiosa impresa”, che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto raccogliere e ripetere l’auge mediatica della precedente esperienza – peraltro conclusasi, come i lettori ricorderanno, tragicamente – in una replica destinata al fallimento si sono messi di mezzo tanti problemi che i volenterosi sostenitori non dovevano avere calcolato nella maniera appropriata. Intanto le fratture interne al movimento anti-israeliano, composto da una variegata galassia di gruppi, sigle e capipopolo, tutti affratellati dal bisogno di bersagliare il medesimo target ma poi divisi sui modi e, soprattutto, sulla distribuzione dei vari meriti. L’articolo riporta le tensioni tra le componenti “laiche” e quelle islamiste o islamofile. A ciò si aggiunge l’offensiva diplomatica intrapresa da Israele già da almeno due anni, quando dovendo fare fronte prima alla ridefinizione dei rapporti con il gigante turco e poi, in tempi più recenti, con l’evoluzione del fenomeno della cosiddetta «primavera araba» (destinata prevedibilmente ad afflosciarsi, non senza però una lunga coda di tensioni, non più ricomponibili dentro il quadro di mediazioni dei regimi locali), ha aperto le porte alla Grecia, tradizionale avversario di Ankara, facendolo divenire il suo nuovo interlocutore privilegiato nel Mediterraneo. La politica è l’arte del possibile, non bisogna dimenticarselo, è il governo israeliano si è lungamente adoperato in tal senso, cercando di evitare che il raffreddamento dei rapporti con la Turchia si traducesse in un pericolosissimo isolamento. Va in questo senso l’articolo di Luisa Arezzo su Liberal dove si commenta la «strana alleanza» tra Atene e Gerusalemme, avviatasi informalmente, ai margini dei grandi eventi internazionali, e poi consolidatasi nel luglio dell’anno scorso con il viaggio del premier Papandreou in Israele, dopo trent’anni di sostanziale indifferenza diplomatica. Il tutto rafforzato grazie al pressing fatto da Benjamin Netanyahu sull’Unione Europa a favore della Repubblica ellenica, la quale, come ben sappiamo, sta attraversando un drammatico momento sul piano economico e finanziario. Di fatto, per la Flottilla II, tutto ciò si è tradotto nell’impedimento materiale di salpare dai porti, rafforzato poi dal divieto cipriota di usare l’isola come scalo o di navigarne le acque territoriali. Il nuovo orizzonte politico dei contestatori è quindi costituito dall’”assalto dal cielo” che seicento di essi vorrebbero realizzare sbarcando in gruppo all’aeroporto di Tel Aviv, tentativo che faranno senz’altro oggi con, però, il prevedibile effetto di essere nella quasi totalità dei casi “intercettati” dalla sicurezza e rispediti indietro. Intanto la Siria, per la cronaca, continua ad essere assente dalle nostre testate. Con tutta probabilità qualche accenno verrà fatto dai quotidiani nella giornata di domani, riportando le notizie sulle ulteriori violenze contro la popolazione da parte di un regime cieco (bel contrappasso per un presidente, quello siriano, che è oculista e oftalmologo…), cupo e autocratico. Varrebbe quindi la pena di fare un link all’articolo che non c’è, quello che racconta, non tanto ai lettori di questa rassegna quanto al pubblico italiano, di come l’informazione sia pallida e taciturna sulle violenze del gruppo di potere assiso a Damasco, una “repubblica monarchica” di minoranza, abilissima nel mantenersi in piedi con il ricorso alla forza, al ricatto e alla brutalità. Si parla invece di Libano nel pezzo di Gianni Perrelli su l’Espresso, dove si ricapitola la situazione, dopo la richiesta di procedere all’arresto di quattro esponenti dell’Hezbollah, avanzata dal Tribunale internazionale istituito per indagare sull’assassinio del premier Rafiq Hariri nel 2005. Il fatto che il movimento islamista sia al governo con un cospicuo numero di ministri nulla toglie alla sua potenza eversiva che potrebbe rivelarsi, ancora una volta in tutta la sua funesta potenza, se il suo leader, Hassan Nasrallah, decidesse di rovesciare il tavolo della discussione per lavare l’ “onta” di una attribuzione di responsabilità ai suoi uomini. Di altro genere sono gli articoli che ci parlano di cultura. Segnaliamo Alan Riding, su Repubblica, sulle polemiche si accompagnano alle celebrazioni di una ricorrenza, il cinquantenario della morte di Louis-Ferdinand Céline, prolifico letterato, di indiscutibile talento (a partire da quella che è forse la sua opera maggiore, «Viaggio al termine della notte») e di non meno corposo livore antisemita (si pensi a tre pamphlet come «Le belle bandiere», «Bagatelle per un massacro» e «Scuola di cadaveri»). Collaborazionista nella Francia di Vichy, adulatore dei tedeschi, fascista tipico (credendo nel cosiddetto Nuovo ordine europeo voluto dai nazisti) e al contempo atipico (per la sua patologica carica narcisista e paranoica), poi fuggitivo dinanzi all’incalzare delle armate alleate nel 1944, riparò in Danimarca da dove si salvò da un destino altrimenti identico a quello dei suoi sodali Robert Brasillach, fucilato dopo la liberazione, e Pierre Drue La Rochelle, invece suicidatosi. Céline, Brasillach e La Rochelle costituirono il terzetto di culto della letteratura prima collaborazionista e poi neofascista. Con la differenza che il primo, nonostante la sua indiscutibile indole razzista, tradottasi in una serie di volumetti tanto veementi quanto ributtanti, mai perse la vena letteraria che lo fa, agli occhi dei contemporanei, l’esempio di come squallore e creazione possano coesistere nella medesima persona. Con l’aggravante che Céline non fu mai un antisemita per calcolo e opportunità ma sempre per intimo convincimento, in questo espressione verace e sincera dei risentimenti che nella Francia profonda di allora allignavano tra una parte consistente della popolazione. Di un altro “talento” folle e antigiudaico parla Libero di oggi, dove sono pubblicate tre lettere, al solito apocalittiche, di Ezra Pound su Pio XII e gli ebrei, il primo ossessionato dall’«usura» e dalla «cleptocrazia» semita. Fatto che permette subito all’Osservatore Romano, con una opinabile generalizzazione, di affermare che ciò testimonierebbe «dell’impegno di Pacelli contro l’abominio della Shoah». Le lettere di Pound a don Tullio Calcagno, sacerdote sospeso a divinis e poi scomunicato per la sua conclamata e ostentata adesione al progetto nazifascista, sono un esempio della prosa del poeta, intarsiata di preziosismi, citazioni e allusioni funzionali a ripetere, sostenendone il fondamento empirico, la sua cupa visione di un mondo dominato dal complotto oscuro degli ebrei. Diverso è il registro della recensione di Giancarlo Mancini su il Riformista del libro di Laurent Binet dedicato a Reinhard Heydrich, il più stretto collaboratore di Heinrich Himmler e superiore di Adolf Eichmann, ovvero l’autentico regista della «soluzione finale della questione ebraica», ossia lo sterminio, fino alla tarda primavera del 1942, quando fu provvidenzialmente ucciso da un commando di patrioti cecoslovacchi. Il profilo biografico di Heydrich, il suo ruolo, la forte influenza che riusciva ad esercitare sul capo delle SS e, di riflesso, su una parte della leadership nazista, non sono ancora stati sufficientemente studiati. Si tratta di un profilo rilevante nella storia del nazionalsocialismo quello assunto dal capo della Rsha, la struttura che coordinava le polizie politiche e di sicurezza del Terzo Reich. La comprensione del quale ci aiuterebbe a capire meglio quali fossero i meccanismi operativi, ma anche i processi decisionali, che portarono alla politica del massacro sistematico.
Claudio Vercelli