Voci a confronto

Nella perdurante latitanza di notizie di immediata rilevanza per la nostra rassegna stampa partiamo da un articolo, a firma di Filippo Di Giacomo, comparso su l’Unità di ieri e dedicato alla nascita, avvenuta nei giorni scorsi, del cinquantaquattresimo Stato africano, nonché centonovantatreesimo sul pianeta, il Sud Sudan. L’autore mette a fuoco le ragioni di quella che è stata una separazione “consensuale” – avvenuta con un referendum – rispetto alla regione settentrionale, a stragrande maggioranza musulmana, consumatasi peraltro dopo un lunghissimo periodo di dissapori, violenze e contrasti, perdurati per trent’anni, a causa del tentativo di procedere all’islamizzazione forzata delle comunità locali. La guerra civile che si era scatenata ha infatti causato almeno 2 milioni di morti, oltre ad un innumerevole quantità di profughi. La sua apparente conclusione pacifica dovrebbe porre termine al tentativo, di fatto fallito, di trasformare il Sudan in una teocrazia musulmana, sul modello dell’esperienza dell’Iran del 1979. Va tuttavia sottolineato che è presto per cantare vittoria. La nuova Repubblica ha una dimensione territoriale grande quanto due volte l’Italia, una popolazione stimata tra i 7 milioni e mezzo e i 13 milioni (significativo che non si abbia un riscontro anagrafico certo), composta perlopiù da cristiani e animisti, appartenenti all’etnica Dinka, confini ancora indefiniti e perduranti dissapori con il Sudan settentrionale, soprattutto sulla questione del controllo delle cospicue risorse petrolifere. Il Sudan meridionale, che si estendo sul 20% del vecchio territorio unitario, possiede il corrispettivo di 6,7 miliardi di barili di petrolio nei suoi giacimenti. Di fatto la sua estrazione e commercializzazione è l’unica fonte certa per l’economia nazionale. Ma il trasporto dell’oro nero è egemonizzato dal Sudan settentrionale, che controlla i due strategici oleodotti che confluiscono a Port Sudan. Da registrare anche il fatto che la popolazione vive per il 70% con un reddito corrispondente ad un dollaro al giorno e per l’80% è analfabeta. Già ce ne avevano parlato, nei giorni precedenti, Massimo Alberizzi sul Corriere della Sera e Lorenzo Buongiorni sul Sole 24 Ore, tutti e due del 10 luglio. Sui giornali di oggi le notizie dal Mediterraneo, ancorché completamente surclassate dalle paginate sulla crisi economica e finanziaria che attraversa l’Europa e colpisce violentemente il nostro paese, si affidano alle valutazioni di lungo periodo, a volere dire che dopo l’estate è plausibile che si possano produrre novità. Così Paul Salem, su l’Espresso, che riprende il tema della Siria e della sua problematica situazione interna, dove il ricorso alla repressione ha alienato di molto il consenso al traballante regime. Benché non si abbiano dati certi, dato l’alone di “dezinformacija” che ricopre ogni gesto e qualsiasi fatto che riguardi Damasco, le stime che l’analista dà per molto probabili rimandano ad un calo del 50% delle attività economiche, ad un raddoppio della disoccupazione, alla penuria di energia e alimentazione, alla fuga dei capitali, depositati cautelativamente all’estero, alla scriteriata produzione di cartamoneta e, quindi, ad un vortice inflattivo incessante. Se così fosse per davvero i giorni di Assad junior sarebbero inesorabilmente contati. Poiché quell’alleanza tra ceto medio produttivo e clan alawita, la minoranza che guida il paese, basata sullo scambio tra benessere economico contro rinuncia ai diritti politici, verrebbe meno. Se la borghesia sunnita damascena e aleppina decidesse che non ci sono più spazi di contrattazione con i maggiorenti al potere il castello di carte siriano crollerebbe molto repentinamente. Il rischio, tuttavia, in questo come in altri casi, è che alla fine di una satrapia familiare non si accompagni il transito verso un sistema politico più libero e maggiormente equilibrato bensì ad una guerra civile tra fazioni contrapposte. È ciò che la Turchia, alleata di Damasco, teme (avendo già ammassato truppe ai suoi confini meridionali, non intendendo affrontare un’altra crisi come quella generata dai profughi iracheni negli anni scorsi se non con la creazione di una zona cuscinetto) e con essa un po’ tutti. In realtà l’evoluzione politica interna è legata ai fattori regionali. Per allentare la morsa Bashar al-Assad dovrebbe prima di tutto ridefinire al ribasso il rapporto con l’Iran e con l’Hezbollah. Movimento sciita, quest’ultimo che, come ci segnala il Foglio, essendo «troppo legato a Damasco […] è in affanno». Come si ha modo di osservare, le crisi nell’area mediorientale hanno sempre la caratteristica di complementarietà. Questo poiché nessun Stato delle regione gode di una reale autonomia politica rispetto ai suoi vicini. L’articolo ricostruisce per sommi capi la natura del «Partito di Dio», evidenziato come la parabola dell’organizzazione stia conoscendo momenti politicamente molto critici proprio per il legame con la Siria in subbuglio. Difficile per l’Hezbollah, che ha sempre basato il suo appeal sulla mobilitazione collettiva e sulla retorica rivoluzionaria, giustificare il rapporto con Damasco nel mentre questa sta ribollendo di passioni contestatarie. A ciò, sulla testa di Hassan Nasrallah si è poi aggiunta la tegola del Tribunale speciale per il Libano, che ha indicato in alcuni uomini dell’Hezbollah i responsabili dell’assassinio del premier Hariri nel 2005. Per il movimento sciita la situazione politica è decisamente peggiorata in questi ultimi sei mesi e, a dar credito alle analisi degli specialisti, è improbabile che possa uscire dal pericoloso stallo con un’aggressione ai confini di Israele. La comunità sciita sta ancora leccandosi le ferite per la guerra del 2006; un conflitto contro l’odiata «entità sionista», fermo restando che è comunque destinato ad essere perduto, farebbe più un favore ai siriani che non ai libanesi: questi ultimi guardano peraltro ai primi con crescente indisponibilità; per diverse settimane Hezbollah ha elogiato le sollevazioni arabe salvo poi precipitare in un imbarazzato silenzio quando i tumulti sono esplosi sotto il balcone di casa Assad, a volere lasciare trasparire il doppio registro usato nella valutazione dei medesimi fenomeni; la disponibilità economica dei paesi «fratelli» (in primis il Qatar e l’Iran) che hanno in questi cinque anni concorso attivamente al finanziamento della ricostruzione di ciò che fu distrutto nel conflitto del 2006, è oggi di molto ridimensionata, causa sia le difficoltà economiche e politiche di Teheran sia il raffreddamento dei rapporti con gli altri Stati. In Egitto, dove ci porta un altro articolo del Foglio, «la Fratellanza musulmana ora è contro piazza Tahir». Non c’è di che sorprendersi: il movimento sunnita, che si richiama anch’esso alla rivoluzione di massa ma che ha posizioni politiche fortemente conservatrici (essendo una molecola di quella galassia che in Europa è conosciuta con l’ossimoro di “rivoluzione conservatrice”), ha assunto posizioni sempre più ostili verso i manifestanti, dopo un’iniziale adesione ai motivi delle proteste, fin ad arrivare ad accusarli di essersi fatti infiltrare da «agenti dei servizi segreti sionisti». Il che, come si può facilmente immaginare, costituisce un anatema. Il vero problema per i Fratelli musulmani è che la legalità non gli giova. L’emergere nella lotta politica li obbliga ad “assumere partito”, a prendere posizione, segmentandosi al proprio interno e rivelando che la loro presunta potenza riposa su una coalizione di interessi, di cui sono rappresentanti, così assortita da essere sempre a rischio di rottura. Anche in questo caso conta poi il conflitto tra generazioni di militanti, laddove per quelle più anziane la Fratellanza rimane un soggetto “totalitario”, capace di raccogliere in sé una natura ideologica, sociale, religiosa e politica mentre per quelle più giovani minore è la proclività verso questo tipo di impostazione, guardando al pluripartitismo come ad un interessante traguardo per l’Egitto post-Mubarak. Laura Arezzo, su Liberal, ragiona invece sulla difficile strategia americana per il Medio Oriente, laddove alla necessità di uscire dignitosamente dalle crisi (non sarebbe meglio parlare di pantano?) afghana e da quella libica si accompagna la necessità di rimanere in Iraq influendo sulla Siria, sull’Iran e l’Egitto e dando anche una risposta all’anemico processo di pace tra israeliani e palestinesi. Anatol Lieven, sulla medesima testata, rileva come il futuro ritiro degli americani (e delle forze della coalizione) da Kabul rischi di essere identico a quello operato dai sovietici nel 1989. Con uno sforzo di immaginazione viene da pensare alla politica attuata da Washington nel 1973, con la “vietnamizzazione” della guerra tra Saigon e Hanoi, pallida foglia di fico, durata due anni, per giustificare una sconfitta politica e, poi, la debacle militare dell’alleato. I talebani hanno infatti già annunciato che «la guerra continua», essendo disponibili ad attenuare la violenza dello scontro solo in caso di proficue trattative politiche, che li ammettano al governo. Dopo di che, posta tale situazione, anche qui con notevoli analogie rispetto ad esperienze trascorse, non è difficile immaginare che questi si mangino i loro corrotti interlocutori, a partire da Karzai, considerato un fantoccio dell’Occidente. Lo scenario che Lieven configura è quindi una possibile disintegrazione dello Stato afghano dopo il ritiro dalle scene pubbliche dell’attuale premier, un colpo di stato della componente tagika – saldamente insediata in un esercito nazionale incapace di combattere efficacemente i talebani ma pronto alle manovre di corridoio -, al quale i pashtun risponderebbero con le armi e, quindi, il reinnescarsi di una guerra civile senza quartiere. Oppure, ed è al momento l’unica alternativa plausibile, la definitiva consegna dei territori pashtun ai talebani e la divisione di fatto dell’Afghanistan in due giurisdizioni politiche. Ancora qualche nota, di semplice richiamo, per menzionare la minaccia (l’ennesima) di Gheddafi contro l’Italia, alla quale il pittoresco e sanguinario dittatore ha dichiarato una guerra petrolifera, promettendo di non dare più petrolio all’Eni. Così Vincenzo Nigro su la Repubblica e Umberto De Giovannangeli per l’Unità. Sono passati i tempi in cui si celebrava «l’asse» del nostro governo con quello libico. Si trattava di un anno fa. Un anno, una diversa era, un’altra storia.

Claudio Vercelli