Voci a confronto
Mentre Piero Melati su il Venerdì de la Repubblica ci informa sullo stato di avanzamento del museo della Shoah di Roma, che sorgerà in luogo che è carico di significati e denso di memorie, Villa Torlonia, l’Avvenire, riprendendo una notizia stralcio comparsa già sul «Giornale dell’architettura», ci dice che il padiglione italiano nel campo di Auschwitz, costituito e poi inaugurato nel 1980, nel blocco 21, sulla base del progetto dell’architetto Belgiojoso, è oramai senescente e, forse, inadatto rispetto alla sua originaria vocazione. Sul destino – assai incerto – dell’installazione, da molti anni circolano voci e si sono espressi giudizi tra i più disparati. Molti sono gli affetti che circondano l’impianto posto a memento della deportazione italiana ma altrettante sono le opinioni che lo ritengono in qualche modo legato ad una stagione commemorativa (e quindi anche raffigurativa nonché estetica) trascorsa. Plausibile, quindi, che venga portato a Fossoli. Mentre su ciò che lo potrebbe sostituire è certo che si confronteranno ipotesi tra di loro anche alternative, nel senso di opposte e conflittuali. Come in parte è già avvenuto. La qual cosa ci deve indurre ancora una volta a ritenere che la memoria (o meglio, le memorie), non sia mai un campo d’intesa ma piuttosto di confronto e, a volte, di scontro. L’idea che possa sussistere una «memoria condivisa» è infatti quanto di più artefatto e ambiguo possa darsi. Un locuzione ossimorica, che mette insieme parole di senso opposto. Prima di tutto perché mai vittima e carnefice potranno arrivare ad una comunione di sentimenti, tanto più se il primo non ha emendato le proprie responsabilità. Poi perché dinanzi ad un crimine multiplo, che ha coinvolto una infinità di persone, la sintesi tra ricordi del passato e pensieri sul presente è quanto di più difficile sia possibile compiere. Guido Caldiron, su Left, ritorna sulle tragiche vicende dell’isola di Utoya, istituendo un nesso tra le vicende dell’attentato “patriottico” di Timothy McVeigh ad Oklahoma City nel 1995 e la delirante impresa di Anders Behring Breivik di una settimana fa. Chi studia, come lo stesso articolista, il fenomeno della destra radicale atlantica non è rimasto sorpreso dalla violenza criminale dell’assassino, ben conoscendo non solo le inclinazioni di fondo (segnatamente pervase da un antisemitismo quasi sempre conclamato e, quindi, esplicitato, anche quando si nasconde sotto mentite spoglie o prende a prestito sembianze che sembrerebbero deporre in senso opposto) ma anche i paranoici costrutti ideologici che alimentano la patologica vocazione alla violenza degli appartenenti a quegli ambienti. Piuttosto, quel che ha lasciato sorpresi, è stata l’inettitudine delle autorità di polizia norvegesi. Polemico, rifacendosi al substrato “cristiano” dell’ideologia che ha armato culturalmente la mano criminale di Breivik, è l’articolo dello storico Antonio Gibelli su il Secolo XIX. Da almeno trent’anni esiste un circuito suprematista, che ha numerosi contatti con gli Stati Uniti, il cui collante rimane la musica. Il «White Power Rock» è qualcosa di più di un insieme di note, trattandosi semmai di un habitat subculturale dove coesistono le avanguardie del razzismo latamente neofascista. Ascritto ad un contesto giovanile – e in quanto tale inteso come più rassicurante – in realtà in esso confluiscono vecchie e nuove organizzazioni che si nutrono di una sorta di intolleranza esistenziale. La loro “identità” è infatti sancita dall’odio verso qualcosa o qualcuno, reale o immaginato che sia poco importa. Così per la Scandinavia, come per tutto il continente europeo, dove lo stile «Blood and Honour», l’atteggiamento del “duro proletario” che si fa ragione da sé, con le sue mani, spesso in accordo con “quelli come lui”, ossia la sua tribù di riferimento, da sempre è un collante per giustificare le peggiori efferatezze. Caldiron sottolinea una sorta di implicita contiguità con quelle formazioni politiche non espressamente neofasciste ma legate ad una ideologia populista e xenofoba, quest’ultima basata soprattutto sul rifiuto dell’immigrazione. Due facce della medesima medaglia, secondo l’interpretazione più secca. Che chiama in causa più protagonisti, come segnala Paolo Lepri su il Corriere della Sera, soffermandosi sul caso di una polemica da poco ravvivatasi in Germania. Tuttavia il discorso è più problematico di quanto non possa sembrare ad un primo impatto, essendo il populismo una forma contemporanea del fare politica che si basa sul rifiuto delle mediazioni. Non tutti i partiti di tale genere possono quindi essere inseriti nel circuito dell’intolleranza nuda e cruda. A tale riguardo si legga l’intervista alla sociologa Magali Belent, sempre su Left, che ricollega alla dinamica tra angoscia individuale per i cambiamenti indotti dalla globalizzazione e rifiuto di un orizzonte al contempo “meticcio” e incerto, il nocciolo di un certo pensiero. Che non necessariamente si traduce in aberranti azioni ma che, alimentandosi da sé, ovvero allo specchio della propria ansia per un futuro percepito come fosco, trova la forza di perpetuarsi. In altre parole, ciò con cui si ha a che fare non è il vecchio fascismo che torna sotto nuove spoglie ma un nuovo fenomeno nuovo che si nutre di antiche paure. Non è un dato da sottovalutare poiché la fragilità economica e, di riflesso, sociale dell’Europa è destinata a condizionare l’evoluzione dei risentimenti collettivi. Così come, peraltro, gli studi effettuati dei network sociologici continentali sembrano comprovare una pericolosa tendenza alla transitività del pregiudizio: dall’avversione nei confronti degli ebrei si passa facilmente ai rifiuto di principio dei musulmani; non di meno, chi nutre una diffidenza pregiudiziale nei confronti dei secondi risulta più proclive a sviluppare pari risentimento verso i primi. Peraltro, tutta la propaganda islamista si gioca a sua volta sul richiamo identitario, sulla base del quale mobilitare non solo i propri aderenti ma anche e soprattutto un pubblico più ampio. Si legga al riguardo quanto Deborah Ameri racconta su il Mattino parlando dei «Muslims Against Crusades», un’isoletta dell’arcipelago della contrapposizione religiosa sulla quale regna tale Anjem Choudary, uno dei tanti imprenditori dell’odio. Fabio Nicolucci, sulla medesima testata, torna sulla questione irrisolta dei modelli di integrazione, a fronte della consunzione (meglio parlare, in certi casi, di fallimento) dei tentativi fino ad oggi caldeggiati. Sulle infinite evoluzioni (e involuzioni) del Medio Oriente, in prossimità dell’inizio del Ramadan, il pastone quotidiano ci offre, tra gli altri, un articolo di Davide Frattini sul Corriere della Sera dedicato alla memoria di Ibrahin Qashoush, celebrato ora come il menestrello della sollevazione contro il potere della famiglia Assad. Il bilancio della quale ci dice che, ai giorni correnti, almeno 1.600 persone sarebbero state assassinate, 26mila arrestate (metà delle quali ancora trattenute in prigione) e quasi tremila brutalmente sequestrate dagli apparati di sicurezza del regime. Umberto De Giovannangeli ne parla su l’Unità. Luisa Arezzo, per Liberal, si sofferma invece sulle dinamiche della rivolta e sull’atteggiamento opportunista delle formazione che si rifanno all’Islam radicale, così come del cinismo degli uomini del potere damasceno. Mentre dall’inverosimile “fronte” libico, un pasticciaccio brutto, come avrebbe commentato qualcuno, ci giungono notizie per la penna di Davide Vannucci per Europa e di Luigi Ippolito su il Corriere della Sera. Siamo in estate e tutto sembra assumere un passo più lento. Le vicende finanziarie europee ed americane dominano pressoché incontrastate lo scenario internazionale. Uno spartiacque, prossimo venturo, è il 2 agosto, quando si capirà qualcosa di più rispetto alla negoziazione interna del grande debito americano, uno dei fattori a maggiore incidenza sugli andamenti non solo economici ma anche politici dello scenario internazionale. Per il momento si naviga a vista, in questo come negli altri ambiti. C’è da chiedersi se si tratti di una fittizia quiete, che anticiperebbe nel qual caso una qualche tempesta a venire, o di che altro.
Claudio Vercelli
29 luglio 2011