Voci a confronto
Che il tempo stia inesorabilmente trascorrendo ci è segnalato, tra le tante cose, dalla scomparsa dei testimoni della deportazione. Così per la morte di Rudolf Brazda, l’ultimo «triangolo rosa» ancora in vita, già prigioniero a Buchenwald, di cui ci dicono il Messaggero/a>e Alberto Mattioli su la Stampa. Brazda, di famiglia boema, era nato tuttavia in Sassonia nel 1913. Il clima di tolleranza della Repubblica di Weimar lo aveva indotto a stabilirsi definitivamente in Germania, paese dal quale era poi stato espulso, con l’ascesa dei nazisti al potere, dopo avere scontato una pena detentiva per «depravazione contro natura» (bel sofisma), ovvero in ragione della sua omosessualità. Riparato in Cecoslovacchia, con l’annessione dei Sudeti al Terzo Reich, la separazione dalla Slovacchia e la riduzione della parte restante del paese ad un protettorato germanico, aveva vissuto per l’ennesima volta un’esistenza difficile, fino al nuovo arresto, nel 1941. Dopo di che le porte del Lager si erano aperte anche per lui, destinato ai deliranti esperimenti medici ai quali sopravvisse per quella miscela di caso e di fortuna che a pochi permise di non perire atrocemente come, altrimenti, capitò per la quasi totalità degli internati. Scampato agli ultimi, devastanti giorni dei campi di concentramento, nel dopoguerra, trovato un nuovo compagno con il quale condividere la sua esistenza, si dedicò a lavori manuali, umili e semplici quanto sapeva essere evidentemente il suo carattere. Divenuto cittadino francese, a oramai tarda età, nel 2008, ospite di una casa di riposo, venne a sapere che a Berlino sarebbe stato inaugurato un monumento in memoria degli omosessuali deportati nei Lager nazisti. Fu in quel caso che raccontò la sua passata vicenda, assumendo così una notorietà pubblica che negli anni della sua giovinezza come in quelli della maturità non aveva in alcun modo cercato. Si chiude così il cerchio di un’altra esistenza novecentesca, che ci interroga sul lascito del passato. Trascorsi che sembrano avere insegnato poco o nulla, a giudicare dalle notizie di più spicciola attualità. La Siria ha tenuto banco nella settimana in via di conclusione, diventando l’epicentro del dramma che si sta accompagnando agli echi e ai bagliori di una «primavera araba» oramai trasformatasi nell’estate del disagio e, prevedibilmente, nell’autunno del malcontento. Ciò che rende tangibile il ruolo del paese nello scenario geopolitico mediterraneo e mediorientale è la violenza con la quale il gruppo dirigente damasceno ha reagito alle numerose manifestazioni di piazza. Violenza contro cui i partner arabi non hanno levato alcuna voce di protesta, come registra Davide Vannucci per Europa, rilevando quanto il silenzio indichi una precisa linea politica, quella della compromissione, nel timore che da un pronunciamento contro il regime possa altrimenti derivare una estensione del “contagio”. La linea del doppiopesismo, come alcuni l’anno definita (secco intervento in Libia, astensione in Siria), è denunciata anche da un editoriale del Foglio, dedicato all’«Oronte insanguinato». Già lunedì 1° agosto Anthony Shadid su la Repubblica ci offriva peraltro un quadro della situazione. Una lettura sommaria ci indurrebbe a credere che il copione al quale stiamo assistendo in questi giorni ripeta pedissequamente quello già tristemente recitato nel 1982, quanto la città sunnita di Hama fu letteralmente distrutta dai tank dell’allora rais Hafiz al-Hasad, con un numero di morti che, a stima, si aggirò ad oltre le 20mila unità. L’ostilità tra la componente sunnita e la minoranza alawita (o alauita), quest’ultima di derivazione e osservanza sciita, è innervata nella storia della Repubblica araba di Siria, almeno da quando la famiglia Hasad assunse il potere con un colpo di Stato nel 1970. Da quel momento – infatti – gli alawiti godettero di un trattamento di favore al quale si accompagnava l’occupazione di tutte le più importanti cariche pubbliche e dei centri di potere. L’asimmetria che si ingenerò nel paese tra le diverse componenti storiche della popolazione (ogni paese arabo va considerato come un mosaico a sé, dove al progetto di tenere unite le diverse parti all’interno di un’unica organizzazione politica si accompagna il perdurare dei particolarismi comunitari) sfociò nella drammatica sollevazione di parte della popolazione sunnita, alla quale seguì, con feroce inesorabilità, la drastica repressione governativa. La «rivolta dei gelsomini», avviatasi in Tunisia nel dicembre dell’anno scorso (e sulla quale ritorna Europa con un’intervista a Taib Baccouche, ministro dell’Educazione nell’attuale governo di «transizione»), in Siria ha senz’altro rivestito ancora una volta i panni di un risentimento che non è mai venuto meno o, se si preferisce, quelli di una resa dei conti, per certuni da troppo tempo posticipata, tra minoranza al potere e maggioranza all’opposizione. Tuttavia ha anche assunto connotati diversi, che non possono essere ricondotti e risolti solo nei pur solidi rancori di sempre. Proprio Shadid ci ricorda che alle vecchie spaccature, quelle settarie (sunniti, sciiti, alawiti, curdi, cristiani), si accompagnano nuove faglie di rottura, che si sovrappongono e interagiscono con le tensioni preesistenti. Ad esempio nella diversificazione delle reazioni che si sono misurate tra le città siriane, dove ai sommovimenti di Hama e Homs si è accompagnata la relativa acquiescenza al potere da parte di Damasco e Aleppo, quasi a volere configurare una geografia delle tensioni che ha una forte caratterizzazione territoriale. Non di meno, tra le aree urbane, dove i fermenti sono senz’altro più sostenuti, e quelle rurali, maggiormente sedate. Così come tra gruppi sociali e classi differenti, diversamente beneficiati, gli uni e le altre, in questi decenni, dal potere alawita. Insomma, la dinamica della ribellione siriana risponde ad una pluralità di fattori, non diversamente da quanto avviene negli altri paesi, e come già si era verificato nel 2009 con l’«onda verde» iraniana. Quel che è certo è che la volontà da parte degli Hasad di non concedere nulla che non sia quel che già hanno dato cozzerà sempre di più contro le richieste dei dimostranti. Improbabile che a Damasco si possa procedere come si è fatto al Cairo e a Tunisi, commissariando l’esecutivo con la decapitazione della figura istituzionale più esposta, poiché dietro il lugubre volto di Bashir al-Hasad c’è la sua intera famiglia e, simbioticamente legata ad essa, una camarilla di clienti e serventi che di fatto costituiscono l’amministrazione siriana in quanto tale. Sorte non troppo diversa da quella toccata ad altri paesi della regione ma con in più la debolezza dell’esercito (che non è un soggetto politico a sé come in Turchia o in Egitto), i cui reparti operativi sono quasi esclusivamente una guardia pretoriana nelle mani del despota di turno. Gigi Riva, su l’Espresso, nota che forse «solo l’economia può battere Assad», poiché già adesso gli indicatori in materia segnalano un drastico ridimensionamento della crescita del paese, passato, secondo le stime ufficiali, dall’incremento del 5,5% registrato l’anno scorso all’atteso 3% del 2011. Il crollo del turismo (che costituisce il 12% del Pil), la siccità che tormenta le zone agricole, il ridimensionamento dell’attività industriale, la necessità di importare idrocarburi – non avendo raffinerie o aziende di lavorazione in proprio del greggio estratto dai pozzi locali – insieme al bisogno di accedere al credito internazionale per finanziare le politiche di sostegno ai prezzi politici dei beni di prima necessità, senza i quali il residuo sostegno popolare è destinato a crollare, sono elementi che senz’altro incideranno, e di molto, su quel che resta della forza di un regime tirannico. Sul versante Israele, tralasciando per un giorno le notizie, ancora una volta confuse, che arrivano dalla Tripolitania e dalla Cirenaica (vale ancora la pena chiamare quelle due regioni, unite al Fezzan, con il nome comune di Libia?), segnaliamo gli articoli, che si susseguono da tempo, sulla protesta degli «indignados» locali. Così Ugo Tramballi per il Sole 24 Ore, Virginia Di Marco sul Riformista e Francesca Marretta per Gli Altri. La natura sociale e rivendicativa del movimento, sorto come protesta per gli altissimi costi degli affitti e l’insostenibilità dei mutui, sta mutando, venendo piuttosto ad assumere sempre di più una piega politica, così com’è già capitato in altri paesi a sviluppo avanzato dove, sia pure dinanzi ad un’evoluzione economica più che rassicurante (che in Israele offre un tasso di crescita del 5,2% e un livello di disoccupazione che non va oltre la soglia del 6%) il livello di polarizzazione nella distribuzione delle ricchezze prodotte si sta facendo così intenso da risultare insostenibile per una parte sempre più corposa della classe media.
Claudio Vercelli