Voci a confronto

Non si sfugge tanto facilmente alla morsa, quasi panicosa, delle notizie che bersagliano il pubblico, di ora in ora, sull’andamento dei mercati borsistici e, di riflesso, sull’incerto stato di salute delle economie occidentali. L’informazione estiva è egemonizzata, a tratti quasi sequestrata, da questa priorità che, plausibilmente, accompagnerà anche il nostro autunno. Se non altro per gli onerosi effetti, e forse anche dolorosi (come senz’altro spiacevoli), destinati a rivelarsi a breve e ad incidere stabilmente sugli equilibri interni ai nostri paesi. Peraltro, ciò a cui stiamo assistendo non è poi troppo eccentrico o estraneo rispetto alle analisi da noi già svolte sulle vicende che, nei mesi scorsi, hanno registrato il riempirsi delle piazze del Mediterraneo arabo e del Medio Oriente. Risparmiandoci le sintesi eccessivamente facili, nonché compiaciute, rimane il fatto che un po’ ovunque, sia pure con accenti e forme differenti tra di loro, stia emergendo – e oramai anche da tempo – un soggetto di riflessione comune che, per convenzione, potremmo definire sommariamente come crisi di ruolo e di status del ceto medio. Con questa locuzione vogliamo demandare, in buona sostanza, alla sempre più corposa difficoltà, da parte dei paesi a sviluppo avanzato, come di quelli in via di sviluppo, nel praticare politiche inclusive, capaci di tenere dentro i circuiti dell’economia parti cospicue della propria popolazione. Certo, ci sono differenze incolmabili tra le piazze della «rivoluzione dei gelsomini» (che rivoluzione non è, per inciso), le vie di Londra, Birmingham e delle diverse città inglesi sottoposte al ferro e al fuoco dei partecipanti a Riots edonistici, convulsi, a tratti orgiastici, espressione di un consumismo criminaloide dei poveri e, infine, le proteste che si sono susseguite – e si ripeteranno, se ne può stare certi – nelle grandi città occidentali dinanzi alle sempre più stringenti restrizioni imposte alla spesa pubblica, le cui ricadute sulle famiglie sono al contempo drastiche e immediate. Tuttavia, fatta la tara delle tante differenze, rimane il filo rosso del disagio e del disorientamento sociale che tormenta paesi tra di loro anche diversi ma comunemente investiti dagli effetti di una globalizzazione dei mercati nella quale la predominanza della componente finanziaria sovrasta la concretezza dell’economia materiale. Tralasciando di fare un’analisi troppo approfondita, che pure occorrerebbe ma che non può trovare in questo luogo il suo spazio più proprio, possiamo riprendere il filo del discorso proiettandoci verso Israele dove, come è ben risaputo, da qualche settimana è in corso una protesta che, più o meno correttamente, ha fatto evocare, nella stampa locale e in quella europea, alcune analogie con quella dei cosiddetti «indignados» europei. Oggi ne fa menzione il Financial Times, sottolineando il fatto che «citizens want social justice, not to overthrow the state». Sempre sui giornali di questa mattina Virginia Di Marco, per il Riformista, fa un po’ il punto della situazione, riassumibile in questi termini: la persistenza della protesta, che dura oramai da quattro settimane e sembra godere di un diffuso sostegno popolare; la sua trasversalità, raccogliendo una pluralità di richieste e un ampio numero di partecipanti; le difficoltà del governo, non pregiudizialmente ostile ma evidentemente privo di strumenti per offrire delle risposte soddisfacenti, almeno a breve termine; la marginalità dell’opposizione, che non sembra riuscire a “cavalcare” un puledro che si muove di energia propria; le divisioni nella maggioranza, dove allo Shas, sensibile alle richieste provenienti dai manifestanti, si contrappone Israel Beitenu che, per la voce di Avigdor Lieberman, risponde invece polemicamente. E tuttavia, se la questione demanda alla politica è, nel suo esprimersi, qualcosa di più di un mero fatto politico, chiamando in causa semmai gli equilibri e gli assetti sociali del paese. Per questo è evento destinato a non esaurirsi a breve o, comunque, a non risolversi con i malesseri dell’oggi. Ciò emergeva, tanto per fare una qualche memoria locale, già dagli articoli che, con accenti diversi, ne avevano parlato nei giorni scorsi. Citiamo, al riguardo, in una breve rassegna tra i tanti che ne hanno scritto, Francesca Marretta su Liberazione, Ugo Tramballi per il Sole 24 Ore e ancora Virginia Di Marco su il Riformista del 5 agosto; precedentemente, il 2 di agosto, ne aveva parlato Paolo Tosatti su Terra; ancora Francesca Marretta per Liberazione il 31 luglio e il 28 luglio; Aldo Baquis su la Stampa il 27 dello stesso mese e così via. Senza rifarci alla stampa in lingua estera che è stata ancora più copiosa. Le vicende raccontate, tuttora in corso, sono state fatte oggetto di interpretazioni discordanti poiché si prestano senz’altro a valutazioni diverse a seconda del modo in cui ci si ponga nell’osservarle. L’agenda dei dimostranti ha in cima alle sue priorità il problema dell’elevatissimo costo degli affitti degli appartamenti nelle aree urbane, sproporzionato rispetto alle capacità economiche di un qualsiasi lavoratore dalla retribuzione media. Ma a rimorchio della richiesta di provvedere a calmierare il mercato si sono velocemente sommate altre esigenze, tutte legate allo stato dell’economia reale. Lo stesso governatore della Banca centrale d’Israele, Stanley Fischer, le ha sintetizzate in quattro aspetti prioritari: il problema edilizio, ovvero degli oneri dell’abitare; il costo medio della vita; la tassazione e le difficoltà di soddisfare la richiesta di servizi sociali proveniente dalla collettività. Una prima ipotesi sulla sostenibilità delle domande, avanzata dal ministero delle Finanze, ha quantificato l’impegno in 60 bilioni di shekalim. Più in generale, tuttavia, al di là delle singole questioni, le proteste si sono volte verso una richiesta più ampia e onnicomprensiva, ossia quella di un mutamento nelle priorità dell’agenda politica nazionale. Molti dimostranti hanno infatti chiesto una netta revisione nell’indirizzo liberista impresso dal Premier Benjamin Netanyahu al programma del suo esecutivo, recuperando quell’intervento pubblico che il programma di privatizzazioni, di liberalizzazioni e di contrazione dell’offerta di Welfare State ha in questi anni invece tagliato. La base sociale e culturale dei partecipanti alle manifestazioni è eterogenea, così com’è priva di una leadership, trattandosi piuttosto di un fenomeno spontaneo, dove convergono, sulla scorta di una comune esigenza, individui con esistenze, aspettative e atteggiamenti tra di loro anche molto diversi. Elemento, questo, che rende estremamente complesso, se non improbabile, il raccordo tra la protesta e quei gruppi, a partire dal sindacato, che tradizionalmente hanno raccolto e canalizzato le domande conflittuali in questi decenni. Va detto che le domande che provengono da una parte della società israeliana vanno poste in un ragionamento di prospettiva, non permettendoci da subito di arrivare a delle conclusioni certe. Tralasciamo l’aspetto della fisiologicità della protesta in un regime democratico, cosa in sé evidente. Lo stesso atteggiamento delle autorità non è stato informato a un rifiuto di principio, cogliendo piuttosto la natura condivisa – e quindi plausibile – di certe richieste. Dopo di che l’esecutivo, non del tutto insensibile, se non altro per ragioni di consenso politico, si trova per più aspetti con le mani legate, non avendo un ampio paniere di risorse alle quali potere attingere. Il movimento degli «indignados» israeliani è destinato quindi, volente o nolente, a intrecciarsi all’evoluzione dello scenario internazionale. Poiché nelle sue istanze elementari si riannoda al grande problema, generalizzato, di come oggi il settore pubblico (lo Stato) e quello privato (il mercato) possano tra di loro interagire, in un’economia globalizzata, senza ingenerare fenomeni di eccessiva sperequazione. Ben sapendo che oltre una certa soglia le società rischiano altrimenti di “rompersi”, venendo meno quei presupposti della reciprocità civile che riposano sulla giustizia sociale. Nella regione mediorientale, inoltre, questo implica a breve il confrontarsi con il tornante prossimo venturo del voto alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello Stato palestinese così come, su un piano di ben più ampio respiro, con l’evoluzione demografica della società araba. Israele deve sempre fare i conti con ciò che gli sta dinnanzi e, soprattutto, intorno. Quanto alla restante parte della situazione regionale, consegnata ad un tormentoso stallo, probabilmente foriero di future evoluzioni tormentate, si soffermano come d’abitudine alcune testate, sia pure rubricando le loro riflessioni ad un ferragostano “varie ed eventuali”. Segnaliamo quindi l’articolo di Franco Venturini sul Corriere della Sera, nel quale si pone in rilievo il velleitarismo, unito alla mancanza di una chiara strategia e ad un preciso obiettivo, che ha accompagnato l’iniziativa della Nato in Libia. La domanda di fondo riguarda la rifinanziabilità dell’impresa che, il 20 di settembre, vedrà scadere il suo mandato. La drammatizzazione della crisi finanziaria e gli impegni in casa propria di alcuni tra i più interessati alfieri dell’operazione militare, ed in particolare Nicolas Sarkozy e David Cameron (oltre che di Barack Obama), rende scarsamente plausibile la sua semplice reiterazione come se nulla fosse stato. Dopo di che l’unico modo per uscirne fuori ragionevolmente sarebbe una soluzione politica che tarda però a essere trovata e che, per inciso, è ancor più implausibile dello stesso prosieguo di uno stanco e inconcludente impegno bellico. Peraltro, come Elisabetta Burba rileva su Panorama, proprio la riflessione sulla vicenda libica, nella sua simultaneità con altri tragici sviluppi, a partire da quello siriano, induce a ritenere che l’Occidente pratichi una politica dei due pesi e delle due misure. Interventismo conclamato laddove vi sono interessi propri in gioco, astensionismo silenzioso e connivente negli altri casi. Non è una scoperta di grande rilievo, peraltro, ma assume una proporzione più criticabile se si pensa, come afferma l’articolista, chiamando in causa la riflessione del generale Fabio Mini, che «le guerre umanitarie sono risultate un disastro». Sulla natura di queste ultime (difetto di strategia politica, superficialità di condotta sul campo, pressapochismo operativo e gestionale, mancanza di risorse finanziarie, competitività tra i soggetti delle coalizioni, concorrenzialità tra i paesi partecipanti e così via), almeno per il decennio da poco trascorso, si dovrà aprire prima o poi una discussione politica. Non è quindi fuori luogo mettere in rilievo che la sovraesposizione americana nel teatro mediorientale durante gli anni di Clinton e poi, soprattutto, di Bush junior, è uno dei fattori che hanno pesato nella composizione della situazione debitoria con la quale, ora, non solo gli Stati Uniti ma anche l’Europa sono costretti a confrontarsi drasticamente. Sempre per allietarsi nel merito degli scenari mediorientali si legga il resoconto di Antonella Appiano su l’Espresso, «Dalla Siria con furore», dove si raccontano quattro mesi di permanenza e, nel mentre, del riscontro di un mutamento di priorità tra i manifestanti, partiti dalla richiesta di un pacchetto di riforme (tra le quali la limitazione dell’endemica corruzione) e giunti, a causa soprattutto dell’ottusa risposta del regime, a cercare di fare cadere la satrapia degli Assad. Per chiudere su orizzonti neri, sui quali si avrà senz’altro modo di tornare, ancora su l’Espresso, questa volta per la firma di Paolo Biondani e Gigi Riva, segnaliamo l’inchiesta sul milieu estremistico della destra radicale italiana ed europea, che fa da sfondo alle tragiche gesta di Anders Behring Breivik, il pluriomicida di Utoya. Che il passato nazista sia destinato a tornare, sia pure come “grazioso” fantasma si veda poi, sulla medesima testata, il tour di Enrico Arosio in Baviera, all’Obersalzberg, dove aveva sede il «nido dell’aquila», rifugio alpino di Adolf Hitler e, di fatto, sede vicaria del governo del Terzo Reich. Il nero, come dicono nei negozi di abbigliamento, è sempre di moda. Sarà perché stringe la silhouette o chissà per quale altro motivo, ma a certuni proprio sembra continuare a piacere.

Claudio Vercelli