Voci a confronto
La notizia del giorno, già i nostri lettori lo sapranno da sé, è il gravissimo attacco terroristico consumatosi nella giornata di ieri nei pressi di Eilat e, quindi, del confine con l’Egitto, che ha causato otto morti (sei civili e due militari) e diverse decine di feriti, nonché la risposta militare del governo israeliano nei confronti delle cellule eversive presenti a Gaza. Ne parlano – ovviamente – tutti i quotidiani. Segnaliamo, tra gli altri, gli articoli di cronaca di Francesco Battistini per il Corriere della Sera, di Fausto Biloslavo su il Giornale (corredato delle considerazioni di Fiamma Nirenstein, in sostanziale sintonia con alcuni passaggi di quanto scritto da Andrea Morigi per Libero), Francesca Cicardi per il Fatto quotidiano, Alessandro Carlini su Libero, Fabio Nicolucci per il Mattino come, sempre per la medesima testata, Eric Salerno, il quale è anche lo stesso autore della cronaca offerta da il Messaggero. Ancora pagine al riguardo si possono trovare per la firma di Aldo Baquis su la Stampa, di Alberto Stabile per la Repubblica e di Ugo Tramballi per il Sole 24 Ore. Un carnet ampio di informazioni, in buona sostanza. Da rilevare fin da subito quella che è una prassi abituale, e non casuale, della nostra stampa, laddove quando ci si riferisce alla capitale d’Israele si menziona volutamente «Tel Aviv», omettendo Gerusalemme, mentre le azioni militari vengono rubricate in quanto «rappresaglie». La dinamica, prima confusa poi ricostruita, con il passare dei minuti, con sempre maggiore precisione, indica un’aggressione in più atti, compiuta da più nuclei terroristici, prima nei confronti di un autobus della compagnia di trasporti nazionale e poi contro vetture civili, l’uno e le altre fatte ripetutamente segno da una violenta gragnola di pallottole. Contro i mezzi di trasporto privati è stata lanciata anche una granata. Nel mentre, si era verificata l’esplosione di alcuni ordigni, delle bombe collocate sul ciglio della strada e dal versante egiziano del confine meridionale parrebbe siano partiti alcuni colpi di mortaio. A questi drammatici fatti le autorità israeliane hanno immediatamente fatto seguire una vasta operazione militare che, nel corso di un’ora, ha portato all’intercettazione e all’annientamento di una parte degli aggressori, con un bilancio di sette morti. Fin qui la scarna cronaca che, tra le altre cose, deve registrare anche le dichiarazioni di Ehud Barak, ministro della Difesa, il quale ha imputato a Gaza l’origine degli attentatori. Dal ché si potrebbe presumere che molto presto il rapporto conflittuale con Hamas sia destinata a conoscere un nuovo capitolo di tensioni. Tuttavia, al di là della responsabilità palestinese, che è ancora in corso di definitivo accertamento, rimane il fatto che con tutta probabilità l’Egitto, soprattutto dopo i rivolgimenti dei mesi trascorsi, che portarono al disarcionamento di Hosni Mubarak, oggi esposto alle telecamere del mondo intero mentre si celebra il processo a suo carico, stia tornando ad essere una frontiera problematica per Israele. Così Bernardo Valli su la Repubblica (che parla del Sinai come di una «polveriera») e Maurizio Molinari per la Stampa (che invece definisce la penisola come un «santuario di al Qaeda»). Se il livello di guardia non si era mai del tutto abbassato, per via della problematicità intrinseca al controllo di sicurezza di territori come il Negev e, dall’altra parte del confine, del Sinai, è certo che dalla fine degli anni Settanta le infiltrazioni terroristiche avevano sempre di più preferito altre aree di azione, soprattutto al nord. Tali scelte, ovviamente, non erano legate solo alla maggiore “praticabilità operativa” di certe zone ma anche e soprattutto alla disponibilità e all’acquiescenza delle autorità locali e nazionali. Il Libano, prima con la presenza dell’Olp poi, dopo la sua cacciata nel 1982, con il consolidamento di Hezbollah, era diventato il ricettacolo per eccellenza dei gruppi terroristici. Diverso era il discorso per la Siria del clan degli Assad, che si divideva tra aperto sostegno al cosiddetto «fronte del rifiuto» e il perenne bisogno di controllare – e a volte sedare – i gruppi palestinesi, soprattutto il Fatah di Arafat. La Giordania, in ben altra posizione geopolitica, dopo la radicale eliminazione dei militanti di «settembre nero», consumatasi con una vera e propria resa dei conti, non meno violenta di quella che dodici anni dopo caratterizzò la distruzione da parte delle forze armate damascene della città sunnita di Hama, aveva scarso interesse ad alimentare la violenza terroristica contro Israele ben sapendo che essa avrebbe potuto ritorcersi contro di sé. In questo bailamme di ruoli e di parti l’Egitto non aveva più costituito il fulcro delle preoccupazioni israeliane, non almeno da dopo la firma degli oramai lontani accordi di Camp David nel 1978. Da quel momento il Sinai aveva infatti perduto quella strategicità. altrimenti rivestita per l’esercito e l’intelligence israeliane, poiché tra i diversi elementi della firma della pace tra le due nazione vi era anche stato quello, invero assai gradito ai cairoti, per il quale all’allora Olp sarebbe stato lasciato ben poco spazio operativo. Ma tutto ciò è oramai storia. Negli ultimi cinque anni i fattori di incertezza nella regione meridionale sono bruscamente tornati a pesare per Gerusalemme. Il processo di islamizzazione della striscia di Gaza, conclusosi con la vittoria di Hamas, ha costituito una grave premessa ai successivi sviluppi critici di cui siamo un po’ tutti a conoscenza. Se con Mubarak la strategia egiziana era quella del contenimento delle spinte eversive provenienti da quell’ambito ora, dopo i rivolgimenti dei mesi scorsi, è plausibile sempre di più che ci si trovi dinanzi ad un nuovo scenario. Già sui giornali di ieri c’era chi notava, come il Foglio, che dopo le dure proteste popolari e la repressione «Hamas [sia] sulla graticola siriana». Per anni ospitata a Damasco la dirigenza del movimento palestinese sembra ora propensa a trasferirsi in blocco al Cairo. Così già avrebbe fatto Khaled Meshaal, capo dell’ala militare. Il Sinai torna quindi ad essere oggetto di molte preoccupazione, come sottolineano sia Guido Olimpo su il Corriere della Sera che il Foglio titolando che esso «è come il Waziristan». Il Messaggero dà voce a Gerald Steinberg, dell’Università Bar Ilan, sul fatto che «predoni e al Qaeda, oramai il Sinai è fuori controllo» mentre Francesca Paci lo fa con Martin Van Creveld, dell’Università di Gerusalemme. Più o meno dello stesso tenore le cose scritte da Azzurra Meringolo su il Riformista. Di tono un po’ diverso Michele Giorgio, che scrive sia per il Manifesto che sul Mattino, intervistando in quest’ultimo caso un analista egiziano. La penisola è un terreno adatto alle manovre di cellule terroristiche, contando su Gaza come centro operativo. Così per i gruppi di osservanza salafita, ingrossatisi grazie all’ingresso di ex prigionieri provenienti dalle carceri egiziane, tornati in libertà nel mezzo dei tumulti dei mesi scorsi; vi è poi la componente del fondamentalismo palestinese, alla quale si aggiungono alcuni clan beduini, che traggono i loro proventi dai commerci illegali, a partire da quello delle armi; vi è infine l’inquietante presenza dei pasdaran iraniani, che operano come un’agenzia regionale, ovvero sovranazionale, alimentando un network che collega Teheran all’Egitto e a Gaza. Sempre per quello che concerne l’agitata area del Medio Oriente c’è da registrare la scomunica dell’amministrazione americana e di quelle europee nei confronti del clan degli Assad, con l’ “invito” rivolto a Bashar e ai suoi familiari di farsi da parte. Si possono leggere al riguardo le cronache di Michele Farina su il Corriere della Sera, di Miriam Giannantina per il Manifesto, di Anna Guaita su il Messaggero, di Giampaolo Cadalanu per la Repubblica, di Elena di Caro su il Sole 24 Ore e le considerazioni del Foglio dove si intitola, pensando alla Casa Bianca, sulla «morte di una dottrina a Damasco». Cambiamo registro e passiamo a fatti meno luttuosi ma non per questo meno inquietanti. Sofia Ventura, su l’Espresso, interviene con pacatezza nel merito delle inevitabili polemiche che si sono accompagnate in Francia all’approvazione della legge che vieta l’uso del velo integrale, il burqa. Similarmente Carlo Panella su Libero affronta il tema della inaugurazione nel cremonese di un tempio sikh. Come è abbondantemente risaputo il ricorso alla simbologia religiosa – per meglio dire, la sua pubblica ostentazione che, in certi casi si trasforma in imposizione – è divenuta da tempo materia di conflitto tra opposte concezioni di merito. La vertenza, in maniera facilmente prevedibile, si è quindi immediatamente caricata di una valenza ideologica poiché, come molti denunciano, dietro all’esibizione c’è il più delle volte una rivendicazione di identità che collima con un’intenzione espressamente politica. Più in generale, ciò che è manifestato come vettore di appartenenza religiosa e spirituale in più casi la trascende, per diventare una dichiarazione di alterità comunitaria inconciliabile con una parte fondamentale degli istituti giuridici e delle consuetudini sociali e civili del paese ospite. Ventura argomenta nel merito dei due capi estremi del discorso sul velo: da un lato, per i suoi sostenitori, la natura di espressione delle libertà individuali, a partire da quella di manifestazione dei propri convincimenti religiosi; dall’altro, per i detrattori, in quanto simbolo di sottomissione. Condivisibile quando va dicendo che «il fatto che un comportamento abbia origini religiose o legate alla tradizione culturale non lo rende accettabile di per sé e nemmeno può giustificare l’inosservanza della legge […] a meno che non si accetti una visione comunitarista secondo la quale le diversità culturali devono convivere non in un contesto integrato di relazioni, dove tutti sono titolari di eguali diritti e doveri, ma in società segmentate dove mondi chiusi vivono l’uno accanto all’altro». Si tratta del cuore dell’argomentazione laica, laddove essa stabilisce il primato del diritto positivo, originato dalle assemblee elettive di una società nazionale ed inverato dall’azione quotidiana dei poteri costituzionali, su qualsiasi altro ordinamento, non importa di quale origine. Ancora meno qualora esso accampi la sua natura di diritto divino, ovvero increato, cioè demandato dall’Autorità suprema agli esseri umani. Del pari, il rimando ossessivo alla “tradizione” che una parte delle leadership musulmane, soprattutto quelle occidentali, adoperano per giustificare il ricorso a un capo di abbigliamento che ha una ragione dichiaratamente costrittiva – celare la soggettività di chi vi è coperto -, trova il suo duplice limite sia nella inesistenza di un’unica tradizione (dal ché deriva il fatto che essa è una invenzione dei tempi più o meno recenti, come la quasi totalità di quelle condotte che dicono di essere informate a consuetudini di immemore origine) che nella dignità di chi è tenuto ad indossarlo. Quest’ultima è un valore assoluto per le società del diritto universale proprio perché questo è tale se si applica a qualsivoglia individuo, senza distinzioni di principio. Il particolarismo comunitario, invece, tende a sottrarre con forza i singoli dalla protezione della legge per vincolarli agli usi coattivi del proprio piccolo universo di valori e, soprattutto, di gerarchie. L’emancipazione a tutt’oggi implica quindi la capacità di spezzare l’intelaiatura di dipendenze che assoggettano le persone, soprattutto quelle più deboli poiché meno provviste di risorse culturali e materiali autonome, dalla sfera del bisogno che è soprattutto la deferenza ad un sistema di micropoteri che ledono ogni libertà individuale, fino all’estremo della soppressione della vita dei dissenzienti. E ancora una volta si coglierà come sussista un sottile filo rosso tra le questioni di forma (nel nostro caso il velo integrale), che poi tali non sono, rimandando semmai a concreti problemi per un grande numero di persone, e i fatti della violenza politica, dei quali ci siamo dovuto occupare ancora una volta in esordio della nostra rassegna. Non si tratta di una continuità e neanche di una reciprocità ma senz’altro di una inquietante eco, a volte indistinta altre volte più nettamente percepita. In gioco c’è l’esistenza e i suoi diritti, primo tra tutti – si perdono il bisticcio – il diritto a vivere.
Claudio Vercelli