Voci a confronto
Risparmiamoci per un giorno le notizie dalle sponde mediterranee dell’Africa e quelle sulla proclamazione unilaterale, prossima ventura, dello Stato palestinese, per fare un minimo di mente locale su questione apparentemente meno stringenti ma senz’altro di lunga durata (e quindi di forte impatto). Già nei giorni trascorsi abbiamo avuto modo, infatti, di incontrarci con quello che è una sorta di “eterno ritorno”, il tema della Shoah e del suo “uso pubblico”, ovvero dei modi in cui essa viene recepita, elaborata, narrata, insegnata e quindi ricordata nelle nostre società. L’occasione, in quest’ultimo caso, è stata generata da due eventi concomitanti, le dichiarazioni di Günter Grass e la polemica – l’ennesima – sui manuali scolastici francesi. Dividiamo i due temi, in quanto corni del medesimo problema, per meglio capire di cosa stiamo parlando. Nel primo caso il celebrato autore di romanzi che hanno concorso a dare alla Germania contemporanea una coscienza di sé (con uno stile però molto diverso da alcuni suoi omologhi come, tra gli altri, un compassato Heinrich Böll, oggi forse un po’ troppo dimenticato), è tornato sul passato recente suo e dei suoi connazionali in una intervista concessa a Tom Segev per Ha’aretz e poi ripresa, con toni polemici, dalla Süddeutsche Zeitung. Chi conosce i nomi sa che dal colloquio tra due figure così vivaci della cultura contemporanea non poteva non emergere qualcosa di significativo, come poi puntualmente è successo. Ne davano conto già ieri Mara Gergolet per il Corriere della Sera, Andrea Tarquini su la Repubblica, come i commenti di Dario Fertilio e Pierluigi Battista sempre su il Corriere. Grass, soffermandosi sulla Shoah e, più in generale, sulle tragedie immani causate dall’ultima guerra mondiale, ha infatti stabilito delle correlazioni tra eventi capitati durante o per causa di quel conflitto, richiamando ancora una volta, come molti sono oramai abituati fare, lo sterminio razziale in quanto indice sul quale misurare l’intensità (e l’assimilabilità) di atrocità di vario genere. Così, in un passaggio, poi contestato, dell’intervista, in cui testualmente afferma che «la follia e il crimine non erano espressi solo nell’Olocausto, e non si sono fermati alla fine della guerra. Di otto milioni di soldati tedeschi catturati dai russi, forse due milioni sono sopravvissuti e gli altri sono stati liquidati. E poi ci sono i 14 milioni di rifugiati tedeschi. Metà del paese è passato direttamente dalla tirannia nazista alla tirannia comunista. Non dico questo per diminuire la gravità del crimine contro gli ebrei, ma l’Olocausto non è stato l’unico crimine. Noi portiamo la responsabilità per i crimini nazisti. Ma i crimini portarono anche a disastrose conseguenze per i tedeschi, che a loro volta divennero vittime». Vale al pena di riportare l’insieme delle argomentazioni, per esteso, poiché le questioni richiamate (comparazione, correlazione, causalità, reciprocità e, per certuni, relativizzazione) sono molto delicate poiché si inseriscono anche nella discussione quotidiana, di senso comune. Chi ha sofferto di più? C’è una scala sulla quale misurare e giudicare le ragioni di oggi, riconducendole semmai ai torti subiti ieri? Il passato legittima le scelte del presente? C’è equivalenza, differenza o inconciliabilità tra storie diverse vissute nello stesso tempo e in luoghi vicini? In realtà l’intervista a Grass dura ben due ore e mezza e la sua sintesi deve essere risultata non facile a Segev. I toni, come gli argomenti, a detta dell’intervistatore, sono mutati di passo in passo. Benché il romanziere non fosse in vena di fare del revisionismo a buon mercato, e men che meno del negazionismo, di cui peraltro non c’è traccia alcuna, tuttavia a lasciare perplessi alcuni lettori (affidando il facile sgomento ad altri) sono il deliberato accostamento tra la Shoah e il destino dei tedeschi, quasi a volere stabilire un nesso se non di ordine causale quanto meno morale. Ed è questa la cosa che, a ben vedere, costituisce il nodo cruciale della sua esternazione. Non a caso Grass ricorre alla parola «liquidati» per definire il destino dei suoi connazionali finiti prigionieri di Stalin, a lasciare intendere che l’intenzionalità nel causare la morte fosse in qualche modo equiparabile a quella adottata nel caso del trattamento della popolazione ebraica per parte nazista. Opinione che non sembra facilmente sostenibile. I morti si equivalgono, del modo in cui sono morti invece non si può dire altrettanto. Un conto è un soldato, parte di un esercito di invasori, che spira durante una durissima prigionia; altro discorso è l’assassinio deliberato di un bambino di tre, quattro, cinque anni in una camera a gas. Stalin fu un dittatore brutale e i gulag furono letali per una parte dei loro “ospiti”. Non c’è bisogno di alterare la percezione dei fatti per confermare tale giudizio. Oggetto poi di ulteriore polemica sono i numeri, che nell’intervista sembrano fastidiosamente sbilanciati poiché calcati: benché non si abbia – ne mai si avrà – un repertorio e una contabilità certe su quanti tedeschi (e italiani, rumeni nonché bulgari) caddero nelle mani dei sovietici, tra il 1941 e il 1945, di certo le stime della storiografia accreditata inducono ad essere molto più cauti di quanto non faccia arditamente Grass. Per più studiosi la cifra andrebbe ridimensionata, arrivando ai 4 milioni di prigionieri dei quali poco meno di un quarto perì durante la detenzione coatta. Su questo passaggio, però, gli stessi (ex) sovietici, vittime allora di una guerra d’invasione che era anche sterminazionista – ossia rivolta contro la stessa presenza fisica delle popolazioni slave, che andava radicalmente “ridimensionata” -, potrebbero a tutt’oggi controbattere senza troppi problemi che il trattamento riservato ai soldati del loro esercito era per più aspetti peggiore di quello da loro adottato per i militi della Wehrmacht. Un minimo di decenza storica, un po’ di memoria non senilizzata, uno sforzo di onestà intellettuale devono quindi includere il doveroso ricordo del destino di almeno tre milioni di uomini morti, soprattutto di stenti, nei campi di concentramento e nei luoghi di raccolta organizzati nelle retrovie, oltre che nelle fucilazioni che interessarono alcuni reparti dell’esercito sovietico. Non erano barbari esecutori della rabbiosa volontà dei bolscevichi. Erano uomini chiamati alle armi che, dopo essersi arresi, venivano deliberatamente trattati in modo tale da causarne la morte quanto più presto possibile e senza nessuna considerazione per la residua dignità. Insomma, se si vuole rivendicare la memoria di un’ecatombe (e la guerra all’Est lo fu senz’altro per la Germania, che tuttavia portava la responsabilità di averla deliberatamente scatenata), ossia il dolore per una sofferenza patita, bisogna anche avere la forza morale e civile di contestualizzarne l’evento, mettendolo senz’altro in relazione con ciò di cui si fu anche vittime ma, soprattutto, con quanto si causò. Cosa che sembra difettare al romanziere, che invece pare recuperare i toni a suo tempo esibiti nelle rivendicazioni dell’associazionismo dei profughi tedeschi dall’Est (laddove alla legittimità della richiesta di vedere riconosciuta la propria condizione legavano un’affermazione di identità politica a tratti ambigua, poiché in alcuni casi intrecciata con quel «passato che non passa» che aveva portato al collasso la loro stessa Germania); così come la visione che caratterizzò autori del conservatorismo storiografico quali Andreas Hillgruber, che negli anni Ottanta firmò un libro dal titolo «Il duplice tramonto. La frantumazione del “Reich” tedesco e la fine dell’ebraismo europeo», a volere rinnovare l’idea che la coesistenza di un evento con l’altro suggellasse la reciprocità politica, morale e fattuale. Insomma, tedeschi ed ebrei con uno stesso destino, accomunati oggi dal medesimo giudizio. Stefano Montefiori, su il Corriere della Sera del 31 agosto, affronta l’altro tema di cui abbiamo fatto menzione in esordio e che possiamo richiamare solo velocemente. Il tutto nasce da un articolo comparso nello stesso giorno su Le Monde a firma di Claude Lanzmann. Una circolare del ministero dell’Educazione nazionale francese, pubblicata già un anno fa, insiste sulla necessità di non fare ricorso alla parola Shoah, sostituendola semmai con termini più generici e “generalisti” come annientamento, genocidio, assassinio di massa e così via, peraltro già usati come sinonimi del termine ebraico ma sempre in sua compresenza (e in quanto alternativa al più impreciso e ambiguo «olocausto», come ricorda Mordechai Lewy su il Corriere della sera di oggi). Lo storico Pierre Nora, intervistato sempre il 31 agosto dal quotidiano milanese, rileva l’assurdità di tale disposizione, sospesa tra uno sfilacciato e odioso politically correct e una non troppo confessabile diffidenza verso il “giudeocentrismo”, imputato a certe narrazioni della storia contemporanea. Per Nora si tratterebbe un tentativo di «addomesticamento» del passato, che risponde alla necessità di accomodarne il ricordo sulla base di esigenze politiche più o meno immaginabili. A partire, aggiungiamo noi, dal duplice dilemma del rapporto con le comunità musulmane immigrate in Europa, che spesso mal tollerano “quel passato”, e dal bisogno, autoconfortativo, di raccontarsi una pietistica ricostruzione degli eventi trascorsi, così come alcuni autori di cassetta sono andati facendo, solleticando il sentimentalismo e l’indulgenza altrui. Il risultato è comunque sempre lo stesso, ovvero lo sfilacciamento e la relativizzazione della memoria. Ha forse ragione, nella sua calcolata ironia, il Foglio del 1° settembre quando afferma che ciò che sta avvenendo implica lo «sbianchettare la Shoah», rifacendosi, opportunamente, alla «visione pedagogica dell’antisemitismo» che starebbe dietro questi comportamenti. Parole di riflessione sono offerte oggi da Anna Foa su l’Avvenire dove ci si raccorda anche a quanto sostiene Jean-Michel Chaumont, autore di «La Concurrence des victimes», un libro che meriterebbe di essere letto in italiano. Poiché non si tratta di una qualche primazia da vantare ma del bisogno di comporre un mosaico dove l’universalità del dolore non diventi sublimazione della soggettività della sofferenza. Non di meno, si ripropone ancora una volta il problema di una visione politica – nel senso letterale, che demanda alla polis – ed europea della voragine degli anni Quaranta, ancora assente dagli orizzonti della cultura civile del nostro continente. Con accenti diversi ma a favore di una lettura disincantata, dove sono ritenute non solo legittime ma anche necessarie le comparazioni non sulla quantità delle cose (come se questo fosse il vero indice sul quale misurare la rilevanza di ciò che fu) ma sulla loro qualità, e quindi sulla loro comparabilità, è l’articolo di Giorgio Israel per il Giornale. Tuttavia, al di là della aperture, il terreno del ricordo, soprattutto se messo in tensione con il presente, rimane scivolosissimo. Francesco Battistini su il Corriere della Sera ci ritorna citando le parole di fuoco di Zygmunt Bauman contro la politica israeliana, espresse per il settimanale polacco Politika, dove ha paragonato e associato le scelte della leadership di Gerusalemme a certi trascorsi nazisti. Una tentazione, quest’ultima, irresistibile per molti, la quale, tuttavia, nella sua terribile, seduttiva semplicità, offusca qualsiasi possibile giudizio, confortando piuttosto il pregiudizio più becero. Chiudiamo questa rassegna con la segnalazione, per il tramite dell’articolo di Marco Cicala su il Venerdì della Repubblica, della ristampa di un importante libro, «Cultura di destra», sull’universo simbolico e mitografico del radicalismo di quell’area politica e culturale.
Claudio Vercelli