Voci a confronto
Si approssima il voto sulla richiesta unilaterale di riconoscere alla delegazione palestinese all’Organizzazione delle Nazioni Unite il ruolo di rappresentanza organica di uno «Stato non-membro osservatore» e non solo di «osservatore permanente» quel già è di diritto. Tutto si consumerà tra il 19 e il 23 prossimi, con la sessione dell’Assemblea in corso. Così la cronaca, variamente raccontata e commentata, con accenti diversificati, da Luca Geronico su Avvenire, Philips Stephens per il Financial Times ed Eric Salerno su il Messaggero. Da un punto di vista formale il mutamento ha effetti relativamente contenuti ma è innegabile che su un piano politico il senso di tale gesto assume ben altre valenze. In tutta probabilità quello che avverrà a breve sarà una spaccatura tra le scelte che l’Assemblea generale andrà facendo e quanto, invece, il Consiglio di sicurezza opzionerà. Poiché se nel secondo caso gli Stati Uniti eserciteranno senz’altro il loro diritto di veto, rendendo così impraticabile la strada obbligata dell’unanimità, è altamente probabile, se non quasi certo, che in Assemblea – dove vale il principio della maggioranza, in questo caso qualificata, corrispondente a due terzi dei membri presenti e aventi diritto al voto – che la richiesta dei palestinesi invece passi. L’unica incertezza, al momento, è dettata dal numero di Stati che aderiranno alla domanda di ammissione. Ne occorrerebbero 126 ma è plausibile che alla fine risultino 130 i consenzienti su 190. È risaputo come l’Assemblea abbia solo una funzione consultiva; tuttavia l’eco politica delle sue manifestazioni di volontà è innegabile. Tanto più se promana da un organismo, le stesse Nazioni Unite, che ha scarsi poteri decisionali ma che costituisce, al momento, l’unica arena mondiale aperta alla totalità degli Stati riconosciuti dalla comunità internazionale. Di fatto, da molto tempo essa si è trasformata in una cassa di risonanza delle rivendicazioni di occasionali e mutevoli coalizioni, soprattutto in quell’organismo assembleare dove il principio della parificazione egualitaria, quello per cui ad ogni Stato corrisponde un voto, rende di per sé tutto molto improbabile. Ossia inapplicabile, poiché estraneo alla concreta dinamica dei rapporti di forza che sono, e rimangono, il criterio fondamentale nella definizione degli assetti e degli equilibri nelle relazioni internazionali. I palestinesi – peraltro divisi al loro interno, come afferma Camille Eid sempre su l’Avvenire, rilevando che «l’Anp non può vincere ma nemmeno rinunciare» – tutto ciò, come altro ancora, ben lo sanno. Non gli si può contestare un peccato di ingenuità che non stanno commettendo, pur correndo il rischio di dividersi tra di loro. Semmai cercano di sfruttare a proprio vantaggio l’estrema fragilità e la “porosità” della situazione mediorientale, e non solo quella, per lanciare sul tavolo del confronto le loro carte. Così un polemico Vittorio Parsi su l’Avvenire, parlando della conclusione di un periodo, durato dal 1949 ad oggi, dove aveva dominato un «ordine senza equilibrio» sotto l’egida americana. Ed è proprio dallo sfiancamento del ruolo degli Stati Uniti; dalla rinnovate pretese britanniche e francesi, gli uni e gli altri ritornati sulla scena del delitto, quella maghrebina, dopo la sconfitta del 1956, con la partecipazione alla guerra contro Gheddafi; dal «neo-ottomanismo» turco di Erdogan (che sta facendo un viaggio costellato di acclamazioni e plausi nei paesi della regione); dalle ambasce della giunta militare egiziana e dalla mancanza di coordinamento quasi catastrofica dell’Unione Europea nel merito delle politiche mediterranee che germinano i fattori di maggiore tensione, in uno scacchiere geopolitico in fermento. Sta di fatto che alla conta dei voti al Palazzo di vetro, per la quale l’Osservatore Romano parla di «diplomazie divise», potrebbero vedersene delle belle: saranno assenzienti alla richiesta palestinese il Belgio, Cipro, la Grecia, l’Irlanda, Malta, il Portogallo e la Svezia (segnatamente, la maggioranza dei paesi economicamente “deboli” dell’Unione). Ad essi si aggiungerebbe la Norvegia. Guardano con interessa al sì anche Gran Bretagna e Francia, fatto che non può più sorprendere, a questo punto, dopo il viaggio volpino e furbesco di Nicolas Sarkozy e David Cameron in Libia, a Tripoli e Bengasi, di cui parlano Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera, Lorenzo Biondi per Europa, un sarcastico Giampiero Gramaglia su il Fatto Quotidiano, Pierre Chiartano per Liberal (con l’azzeccato titolo sulla «vera presa di Tripoli»), Alberto Negri su il Sole 24 Ore e Umberto De Giovannangeli su l’Unità. In posizione opposta, invece, la Germania, l’Olanda, l’Italia e la Repubblica Ceca. Lo stesso Fatto Quotidiano, per la penna di Francesca Cicardi, ricostruisce un quadretto poco commendevole sulla coalizione dei ribelli libici, laddove «riciclati, islamici e guerriglieri» sarebbero «tutti contro tutti». Si sarebbe tentati di scommettere che, tempo un anno, della Libia unitaria rimarrà ben poco, magari sezionandosi nelle tre regioni storiche che la compongono. Ma come si suole dire in questi casi, “chi vivrà vedrà”. La «primavera araba», troppo presto celebrata come una catarsi dei popoli, si sta infatti traducendo nell’autunno del malcontento. Com’era purtroppo in parte prevedibile l’asimmetria tra le richieste dei manifestanti, da una parte, e la coriacea risposta delle élite politiche dall’altra, sta facendo macerare una protesta che sembra non avere sbocco. Il Medio Oriente uscirà da questa situazione, ancora aperta ad ulteriori sviluppi, diverso da com’era anche solo un anno fa, ma non saranno scalzate quelle egemonie che si basano sulla netta separazione tra governanti e governati. I primi, per legittimarsi dinanzi alla loro inamovibilità e, soprattutto, all’incapacità di realizzare politiche economiche in grado di soddisfare le pressanti esigenze di popolazioni che, oltre a chiedere la «democrazia» (senza averne mai fatto reale esperienza), domandano anche giustizia sociale, saranno tentati di tornare a battere vecchie, e mai del tutto abbandonate, strade. Ed Israele funziona bene, come target. L’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo ne è un chiaro segno, poiché il colpo è andato a segno grazie alla “benigna indifferenza” delle autorità, intervenute con la forza solo dopo che la brutale sceneggiata era stata recitata quasi fino in fondo: mancava il massacro di chi era rimasto nei locali della legazione e poi la partitura sarebbe stata recitata fino in fondo. Una cosa simile, fatta la tara tra i due diversi paesi, sta probabilmente dietro alla scelta, compiuta dal ministero degli Esteri israeliano, di fare tornare a casa l’ambasciatore ad Amman con i suoi collaboratori. Va anche in questo senso la sibillina affermazione del premier egiziano Essam Sharaf per la quale l’accordo di pace di Camp David «non è sacro ed è sempre aperto a discussioni o cambiamenti se questo produrrà benefici per la regione», riportata da il Messaggero con un titolo un po’ troppo frettoloso, ossia «l’Egitto mette in discussione gli accordi di Camp David». Difficile affermare che preluda a future rotture – l’Egitto oggi non avrebbe la forza per contrastare Israele – ma è certo che in tale modo la debole leadership cairota cerchi di stornare una parte del malcontento della popolazione verso Gerusalemme, occhieggiando quanto avverrà di qui a poco alle Nazioni Unite, sul dossier «Palestina», e dichiarandosi, nel medesimo tempo, irresponsabile per eventuali tensioni nel Sinai, frontiera che è tornata a bruciare. Un ultimo richiamo all’intervista di Mario Baudino ad Abraham Yehoshua su la Stampa. Venerato nel nostro paese come una delle voci maggiormente critiche d’Israele, pur essendo in casa sua un riformista, lo scrittore e docente universitario ci parla, con la cognizione che gli è propria, del rapporto tra letteratura, politica e identità. Al di là del grado di pertinenza e condivisibilità delle sue affermazioni, ci sarebbe un discorso da fare a latere sulla iconologizzazione che certi autori israeliani hanno – pro domo loro – conosciuto, in Italia e non solo, divenendo la fonte per eccellenza nella formazione di un’idea condivisa sul paese di cui sono parte. Poiché se la letteratura dà idee, ed importanti, le idee non sono sempre e solo il rispecchiamento immediato dei fatti. Ma questo è già un altro discorso da quello che abbiamo affrontato fino ad adesso.
Claudio Vercelli