Voci a confronto

Siamo finalmente quasi giunti al fatidico giorno; la richiesta dei palestinesi all’ONU per il riconoscimento dello stato di Palestina e le opinioni in merito di uomini politici, commentatori e giornalisti sono, da molti giorni, portati all’attenzione del mondo intero. Purtroppo non ho trovato mai un solo riferimento a quanto avvenne subito dopo la guerra dei sei giorni, nel corso della quale Israele conquistò i territori dei quali appunto si discute oggi; all’offerta israeliana di restituire tutti i territori conquistati gli arabi risposero coi tre famosi no di Khartoum. Se oggi si meditasse anche su questa realtà volutamente dimenticata, forse il mondo potrebbe evitare nuove, ulteriori, probabili disgrazie. Si discute sui “territori”, e si finge di dimenticare che l’obiettivo finale, spesso pure dichiarato dai palestinesi, almeno in lingua araba, è lo stesso che stava dietro alla risposta di Khartoum.
Rivkin e Casey sul Wall Street Journal firmano una attenta disamina degli aspetti legali indissolubilmente legati a quanto si vuole oggi decidere, partendo dalla convenzione di Montevideo del ‘33 che sembrerebbe dare torto alle richieste dei palestinesi; essi si soffermano anche sui problemi che tanti attuali sostenitori dei palestinesi, a partire da Cina, Russia e Turchia, hanno coi loro vicini. Maurizio Molinari, sempre attentissimo osservatore di quanto si discute negli USA, descrive l’estremo tentativo in atto, per volontà della Clinton e dei diplomatici europei, di rinviare qualsiasi decisione per poter far ripartire le negoziazioni che si vorrebbe che poi arrivassero a conclusione entro solo sei mesi. Questa sarebbe l’unica strada che permetterebbe di salvare gli accordi di Oslo, e che si dovrebbe tentare per risolvere tutti i problemi esistenti (forse volontà un po’ velleitaria ndr). Ma cosa possono portare oggi trattative tra Abu Mazen e Netanyahu, se si pensa alle parole dell’inviato v.n. di Repubblica: egli scrive infatti che la richiesta di Netanyahu di discutere è “inutile e tardiva”, e chiude il suo articolo assicurando che “Abu Mazen incontrerà Netanyahu, ma solo per cortesia”. Si permetta all’estensore di questa rassegna di esprimere tutta la sua riluttanza a leggere simili parole, chiara dimostrazione di un preciso pensiero politico. Anche Il Sole 24 Ore in una breve scrive che Abu Mazen si è dichiarato pronto ad incontrare Netanyahu; peccato che ha dimenticato di scrivere che egli ha affermato che non ha un particolare interesse a un tale incontro dal momento che non c’è nulla da discutere. Un’altra testata che non nasconde la propria ostilità al governo israeliano è Il Fatto Quotidiano, che infatti oggi riporta un articolo di Robert Fisk pubblicato ieri sull’Independent; già dal titolo: lo stato non nascerà per colpa di Obama, si comprende dove si vuole arrivare. La tesi è sostenuta da affermazioni del tutto false, del genere: Israele è scioccamente timorosa di fronte alle nuove democrazie della Tunisia e dell’Egitto, oppure Israele oppone un crudele rifiuto al presentare le proprie scuse a Turchia ed Egitto per le uccisioni degli uomini della Mavi Marmara e dei soldati di frontiera. In tale contesto non ci si potrà quindi stupire se il ministro degli esteri Lieberman viene definito l’Ahmadinejad della politica israeliana, o se viene fatto un parallelismo tra Dublino, certamente non inglese, e Gerusalemme dove, giustamente per Fisk, non vi sono quasi ambasciate; quali sarebbero mai i diritti su Gerusalemme pretesi da Israele? Poco diverso è l’articolo apparso su Echos nel quale si ricostruisce la lunga strada dei palestinesi all’ONU dove già nel ‘74 vennero ammessi come stato “osservatore”; in questo articolo vengono chiaramente espresse le possibilità, pericolose per molti israeliani, che si aprirebbero in caso di successo palestinese all’ONU, ma si rileggono anche vecchie bufale del genere della passeggiata di Sharon sulla spianata, presentata come la causa della seconda intifada (del 2000).
Cecilia Zecchinelli per il Corriere intervista il poeta palestinese Murid Barghouti che si dimostra contrario all’iniziativa di Abu Mazen, destinata a non portare nulla di concreto; molto chiaramente egli chiede ad Abu Mazen di indire nuove elezioni (strano che non le chieda anche a Hamas) e di cancellare gli accordi di Oslo. Almeno, viene da dire, Barghouti dice chiaramente quello che pensa, anche se non è certo condivisibile, visto che afferma perfino che islam e antisemitismo “non c’entrano”. Ancora sul Corriere corretto il pensiero di Maurizio Caprara che afferma che se l’Europa si spacca sul voto, in futuro conterà sempre di meno di fronte a stati come Brasile, India e Turchia.
Un editoriale del Foglio, accanto alla dichiarazione di Abu Mazen che dice che qualsiasi proposta è irricevibile, parla del pesante deficit dei palestinesi nonostante gli 800 milioni di dollari che ricevono solo dagli USA, e gli abbondanti contributi che arrivano da EU e da Israele. Il governo Netanyahu, in particolare, ha eliminato quasi tutte le barriere allo scambio di capitali e di merci, dando un forte impulso all’imprenditoria locale. Il Foglio si chiede se durerà questa situazione del tutto favorevole ai palestinesi. Sulla stessa testata uno stralcio di una interessante analisi di David Makovsky per il Washington Institute for the Near East ricorda recenti parole di Fayyad, dubbioso dei risultati di questi passi senza un consenso generale, ma Abu Mazen sarebbe spinto ad andare avanti nel timore di una primavera araba anche in Palestina; all’ONU potrebbe ottenere tutto quanto vuole senza dover fare alcuna concessione, come dovrebbe invece fare con le trattative. In questo articolo si riportano anche le parole del presidente dell’ANP che, sul New York Times scrisse della volontà, dopo tale passo, di rivolgersi alla Corte internazionale dell’Aja.
Federica Zaja intervista per Avvenire il politologo egiziano El Shobaki, grande sostenitore di Erdogan, il quale, oltre a fare affermazioni false non approfondite dalla intervistatrice, dichiara che tutto il mondo rischia il caos, e non solo Israele che rischia la terza intifada. E di Erdogan scrive Gian Micalessin sul Giornale, ricordando che Obama iniziò i suoi viaggi all’estero proprio in Turchia, ma oggi si troverebbe in ginocchio di fronte ad un Erdogan che impone la propria volontà. Sotto il titolo: un amico di Israele spiega dove ha sbagliato Israele, Carlo Panella tratta sul Foglio di numerosi temi, compresi quelli che riguardano la Turchia, la Grecia e Cipro; egli si lascia andare ad alcune affermazioni che personalmente non condivido, ma che invito i lettori a considerare individualmente.

Emanuel Segre Amar