Voci a confronto
Dunque si è arrivati ai fatidici giorni, quelli nei quali una battaglia politica e diplomatica, l’ennesima, si consumerà senza esclusione di colpi. La richiesta per parte palestinese di vedersi riconosciuto lo status di Stato membro, ancorché nel ruolo di osservatore, non potendo vantare le medesime prerogative degli Stati di diritto e di fatto, è al centro della discussione internazionale. Ne parlano in molti – già lo si è fatto nei giorni trascorsi – e non ci sottraiamo dal compito di segnalare cronache e valutazioni quali quelle di Richar Prasquier, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche francesi, su Le Figaro, Anna Guaita per il Messaggero, Fabio Scuto su la Repubblica, Virginia di Marco per il Riformista. Oltre, ovviamente, a tanti altri articoli. Poiché su questa questione, che è squisitamente politica, ruota al momento quella strana e ambigua “entità” dello scenario collettivo che va sotto la dizione di «conflitto israelo-palestinese» (una querelle che prosegue da almeno cent’anni, sia pure con intensità diverse), ogni parola che si aggiunge rischia di risultare pleonastica o, peggio ancora, fuori luogo. Riccardo Radaelli, su l’Avvenire, fa una ricostruzione storica di massima del confronto tra israeliani e palestinesi. L’inflazione di discorsi è peraltro funzionale allo stallo dell’iniziativa. Dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David del 2000, quando un accordo sembrava ancora fattibile (e all’epoca a negoziare c’erano tre protagonisti, Bill Clinton, Yasser Arafat e Ehud Barak, oggi quasi del tutto usciti di scena, se si fa eccezione per il terzo, che è comunque figura declinante), di fatto si sono spese montagne di parole per sancire il vuoto pneumatico. Insomma, cosi si suole dire in questi casi, la montagna ha partorito il topolino. E tuttavia se qualcosa è mutato è il contesto internazionale in cui gli attori di oggi si trovano a recitare parti decisamente inadeguate. Non solo in dieci anni si è manifestato nella sua virulenta pericolosità quel fenomeno che chiamiamo «terrorismo internazionale», convitato di pietra di tutte le tavole di discussione, fantasma sfuggente ma non per questo meno potente, ma anche e soprattutto si è iniziato a registrare il tramonto del «monopolarismo imperfetto» (la definizione deriva dalla disciplina delle relazioni internazionali) statunitense. Così Gian Micalessin su il Giornale, anche se l’articolo affronta solo un aspetto del problema, ossia la debole leadership obamiana nella gestione del «dossier Palestina»; in realtà la perdita di potenza americana riguarda una pluralità di scenari, a partire da quello economico, non solo di casa propria (dove le cose non vanno per nulla bene), riflettendosi poi quasi immediatamente sul piano politico. Sta di fatto che per togliersi le castagne dal fuoco, dinanzi all’irremovibilità di Abu Mazen e al sospetto attivismo di Nicolas Sarkozy (un ritratto gli è riservato da Natalie Nougayrède su le Monde) che forse pensa a un suo futuro ruolo da regnante gollista nel Mediterraneo, sfruttando anche la crisi di credibilità e l’inazione italiana, il presidente americano ha dovuto minacciare il veto in sede di Consiglio di Sicurezza, l’unico organismo che abbia un effettivo ruolo decisionale all’Onu. Il che lo condanna a divenire – o meglio, a ritornare ad essere – da subito il “nemico” del mondo arabo, dopo le profferte, tanto generose quanto vuote, degli anni scorsi. Per gli Usa il Mediterraneo sta diventando un teatro di conflitti marginale. E questo non per una maturata irrilevanza di tale scenario ma per l’impossibilità, per questa amministrazione, di tenere fede a più impegni contemporaneamente. Così, titola il Foglio, «sulla piazza di Ramallah è meglio non parlare di Obama», così come la Stampa, per la firma di Aldo Baquis, riprende le voci palestinesi che dicono che «il discorso di Obama [è] dettato da Israele». Le risorse sono quindi poche, gli spazi di manovra ristretti, le prospettive sfuggenti. I palestinesi questo lo hanno capito anche se sono divisi tra di loro, come sottolinea Roberta Zunini per il Fatto, ma questo non si può dire che sia una novità. La loro periclitante leadership (al riguardo si può leggere un puntuale ritrattino di Abu Mazen su il Foglio, dove si parla di «eredità irrisolta di Arafat»), che è alla ricerca di popolarità, una risorsa scarseggiante, come indica Adrien Jaulmes su Le Figaro, si è inserita nelle tante maglie apertesi da una diplomazia debole e da un mutamento forte: diplomazia fragile, quella americana, come sottolineano Elena Molinari su l’Avvenire, Helene Cooper su l’International Herald Tribune e il Financial Times, poiché priva di una credibilità politica alle spalle (e quindi di una capacità negoziale); mutamento corposo, che è quello che, come già dicevamo, coinvolge non solo i protagonisti ma anche il proscenio sul quale recitano il loro ruolo. Ragion per cui, se il flebile tentativo di sostituire alla prova di forza al Palazzo di vetro un nuovo round di negoziazioni dirette tra israeliani e palestinesi è stato subito inabissato dall’incredulità collettiva, l’Unione Europea ha colto la palla al volo per iniziare a smarcarsi dalla linea di condotta statunitense. Il cosiddetto quartetto (l’UE, gli Usa, le Nazioni Unite, e la Russia) che negli anni della «presidenza imperiale» di George W. Bush avrebbe dovuto portare in porto una «road map» della pace, non esiste più e neanche gli strumenti ai quali si affidava sembrano oggi potere qualcosa. L’Unione Europea sta vivendo una crisi che sembra minare le ragioni della sua stessa esistenza; gli Stati Uniti sono indebitati al collo e stanno facendo pagare le loro scelte di politica economica all’Occidente intero; le Nazioni Unite testimoniano della situazione di inanità che stanno vivendo, e non da oggi, essendo il parto di un regime politico, quello atlantico, che si è consunto oramai da tempo; la Russia, infine, intende sicuramente giocare un ruolo ma come «global player», senza dovere rendere conto a terzi delle sue volontà. Parte dei palestinesi invoca a tale riguardo il ruolo dell’«Europa», così come fa Rashid Khalidi, in una intervista a Laure Mandeville su Le Figaro. In queste dinamiche si inserisce poi la Turchia, erede dell’Impero levantino per eccellenza, animata, dopo il diniego alla sua richiesta di entrare nell’Unione, da una vena di rinnovato «ottomanismo». Erdogan, nel suo breve viaggio in alcuni paesi investiti dalla «primavera araba» ha incassato gli assensi e i plausi delle folle. Non piace per sé ma è gradito poiché cerca di coprire un vuoto, quello delle locali classi dirigenti, ritenendo che i tumulti di questi mesi, sulle piazze e nelle strade altrui, siano per Ankara un’opportunità da non lasciarsi perdere. Il buon andamento dell’economia può fargli sperare di divenire una tigre in formato mediterraneo, agganciandosi in qualche modo all’ascesa dei Bric, i paesi di nuova e diffusa ricchezza. Anche da questi calcoli geopolitici, il cui fondamento è però tutto da dimostrare, derivano gli appetiti che va maturando nei riguardi dei bacini di risorse energetiche, così come resoconta Stefano Vergine su l’Espresso. Sul tratto di mare compreso tra Israele, Cipro, Siria e Libano giacerebbero qualcosa come 3.500 miliardi di metri cubi di gas naturali, una riserva invidiabile che già da adesso, benché si sia ancora nella fase sperimentale dei sondaggi e delle verifiche, sta facendo litigare i paesi rivieraschi. Israele ha una parte in tutto ciò non solo perché i territori marini le sono prospicienti ma in quanto primo paese ad essersi occupato di cercare (e scoprire) il tesoro sotto il mare. Due giacimenti, Tamar e Dalit, che dovrebbero divenire operativi con la fine dell’anno entrante, potrebbero garantire l’autonomia assoluta a Gerusalemme sul versante del metano, cosa che attenuerebbe gli eventuali problemi che dovessero subentrare da un razionamento, o da una interruzione, delle forniture egiziane, garantite da una pipeline sottomarina che dal nord del Sinai arriva ad Ashekelon. Peraltro Israele conta anche molto sul Leviatano, un altro giacimento, a 130 chilometri da Haifa, che dovrebbe contenere ben 450 miliardi di metri cubi di gas. Se si parla di gas naturali viene infine in mente l’idea di chi fa l’elogio dei gas afissianti. Mahomud Ahmadinejad non si è fatto sfuggire l’occasione di una sessione di lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per andare a ripetere il suo stanco, ma non per questo meno angosciante, rituale antisemita. Così il Corriere della Sera, il Giornale, ma anche e soprattutto John Voice (uno pseudonimo?) su il Tempo e Paolo Mastrolilli per la Stampa. Nel mentre il “sindaco dell’Iran”, nell’usuale giacchettina d’ordinanza, recitava le sue geremiadi del malaugurio e il suo vittimismo di regime, le delegazioni occidentali uscivano più o meno ordinatamente dalla sala. Si tratta, purtroppo, di un film già visto, con un attore scadente. Si legga, per averne conferma, l’intervista fattagli dal New York Times e ripresa da Repubblica. Ahmadinejad sa di sedere su una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Ragion per cui persevera su una linea di insulti, sia pure utilizzando un arsenale polemico che rischia, nel suo inflazionato ricorso, di perdere quella carica che invece ancora non molti anni fa poteva offrire al Calimero nero di Teheran. Dopo di che, come spesso avviene in Medio Oriente, la circolarità dei discorsi annulla ogni prospettiva. Partitura pesante per aria fritta, quello che passa sotto i nostri occhi. Ma le società, sempre meno rappresentate dalle élites politiche, non possono rimanere in standby in eterno. Più che le volontà dissonanti, e grigie, di stinti politici, alla ricerca di una nuova stagione, potrebbe, ed anche con risultati a breve, l’accelerazione indotta dal mutamento economico e sociale in corso.
Claudio Vercelli