Il Medio Oriente, la piazza pluralista e la nostra frattura

Il notiziario quotidiano l’Unione informa dimostra sempre più la sua forza come luogo di confronto, una vera piazza dove l’unico rimpianto è quello di non potersi sedere a un bar a discutere magari animatamente e da posizioni diametralmente opposte. Nel caso del rapporto fra ebrei d’Italia e Israele non credo sia una questione di destra e sinistra (concetti che sono ormai svuotati di significato). Il confronto è più incentrato su sensazioni a pelle: chi non gira con il maghen david e la bandiera d’Israel è considerato con sospetto (da un lato), e chi vede la sua vita di ebreo come indissolubilmente legato alle sorti di Israel (quale che sia il governo che lo guida) è considerato una vittima inconsapevole della propaganda e fondamentalmente pericoloso. Insulti volano di qua (fascista) e di là (traditore, non sei mio fratello). Io, che provengo da una lunga tradizione famigliare progressista e che sull’antisemitismo a sinistra ho pure scritto un libro, proverei a interpretare l’attuale confronto partendo da una prospettiva storica. Mi è capitato un anno fa di fare un bel viaggio nella Polonia ebraica e ad Auschwitz con un gruppo di amici padovani, ebrei e non ebrei. Persone colte, che hanno dato vita a un bel dibattito intellettuale e hanno convissuto momenti di raccoglimento. L’ultimo giorno siamo stati raggiunti da un nutrito gruppo di ebrei romani, la classica “piazza”, e l’indomani siamo andati insieme a visitare Auschwitz. Bandiere israeliane, hatikva, commozione. Ma anche uno sguardo supponente e, direi, “di superiorità” che si percepiva nei confronti degli amici romani. Una signora di passata militanza comunista mi avvicina e mi chiede lumi: “ma chi sono, ma come si comportano, ma proprio non c’è terreno di confronto”, mi dice. La guardo un po’ stupito e le rispondo: “amica mia, questo è il popolo”, chiedendomi per cosa avesse mai combattuto in questi anni di militanza politica da sinistra.
In effetti non si può che constatare una distanza crescente fra il mondo intellettuale, quasi tutto piuttosto conformista e sempre vezzeggiato dal potere, e la massa di chi sogna una vera emancipazione prima di tutto sociale. Nel mondo ebraico italiano questo tipo di deriva è particolarmente visibile a Roma, forse l’unica piazza che ancora oggi – per motivi storici e demografici – manifesta dinamiche simili. Quello che a me preoccupa e addolora è che l’intellettualità ebraica progressista non sia apparentemente interessata a ricominciare a tessere un vero e profondo rapporto con la piazza. E ancora di più mi dispiace che il terreno di scontro fra due mondi che fanno fatica a riconoscersi sia diventato Israele. Mi dispiace perché lo considero un falso terreno. Non è vero che gli uni amino Israele più degli altri. Ognuno usa gli strumenti che ha a disposizione per esprimere il suo amore, la sua apprensione per il futuro e la sua ansia di pace. Ma in nessun caso quello che ci diciamo oggi sulla benemerita e pluralista piazza mediatica dell’UCEI avrà la men che minima influenza sulla pace fra israeliani e palestinesi. Per cui mi sorge il fondato dubbio che il duro confronto che si va sviluppando su Israele sia solo un velo, che nasconde una più profonda frattura che solo un lungo lavoro di ricucitura potrà sanare.

Gadi Luzzatto Voghera