tesciuvà…
Alla vigilia dei giorni di Tesciuvà, in cui tutti devono autocriticarsi come singoli e come istituzioni, e i rabbini per primi dovrebbero dare l’esempio, è arrivata l’ennesima critica al rabbinato. Questa volta originata dalla dichiarazione dei vescovi italiani che “hanno richiamato il paese e le istituzioni a un maggior rigore morale”; sono le parole di Dario Calimani, che davanti al silenzio dei rabbini su questi temi si chiede perché questi “non parlino mai di ciò che accade nel paese. Perché si accontentano sempre delle piccole metafore omiletiche del dvar Torah a fini interni”. E’ decisamente una domanda importante, ma bisognerebbe staccarla dal fatto che l’ha sollevata: che è apparso chiaramente ricco di implicazioni politiche, legato a una storia complessa di rapporti tra poteri (ai quali siamo estranei o marginali), allusivo ma reticente, e presto ridimensionato dal segretario generale della stessa organizzazione. Forse i rabbini fanno bene a non mescolare la morale con la politica quotidiana, di qualsiasi parte, e non a farsi trascinare da ondate mediatiche in cui, ferma restando la gravità di certi comportamenti, i codici morali non sono del tutto sovrapponibili e coerenza vorrebbe che di tutto si parlasse. La lista delle regole noachidi, quelle che secondo la nostra tradizione dovrebbero guidare la società generale, non si identifica con le norme etiche di Repubblica e nemmeno con quelle dell’Avvenire. L’autorevolezza deriva dalla conoscenza e dalla fedeltà alla tradizione, dal comportamento coerente ed esemplare, ma non si acquista rincorrendo o precedendo le altrui esternazioni. Ma che si debba essere presenti nella società, sì, ha ragione Calimani. Bisogna vedere come.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma