Voci a confronto
Rassegna stampa asciutta, in un giorno come questo, concedendo al lettore – anche per l’immediata prossimità del Kippur – un po’ di tregua dall’abituale affastellarsi di parole concave, tanto rotonde quanto, a volte, cacofoniche e vuote di contenuto. Peraltro la lettura dei giornali non ci riserva particolari sorprese, continuando a confermare, come priorità, almeno per il nostro paese, gli altalenanti andamenti del dibattito politico interno e la perdurante crisi economica e finanziaria. Sull’annoso groviglio di questioni che vanno sotto l’inflazionato nome di «conflitto israelo-palestinese» (l’ultima puntata, la raccomandazione Unesco per l’accettazione della Palestina come stato membro, la si può leggere per la firma di Antonio Picasso su Liberal, di Francesca Marretta su Liberazione, di Simona Verrazzo per Libero, di Alberto Stabile su Repubblica e di altri ancora) si pronuncia Sari Nusseibeh, il presidente dell’Università gerosolomitana al-Quds su l’Espresso, richiamando più volte l’aggettivo «etnico», il sostantivo «religione» ma indulgendo anche nei riferimenti alla «antica razza degli israeliti» (intesa non in senso denigrativo ma una chiave a dir poco ambigua): in realtà i diversi punti che mette a fuoco con l’intenzione, a suo dire, di offrire al lettore elementi di giudizio, risultano alla conclusione della lettura ancora più confusi poiché si basano su categorie sdrucciole. Inutile aprire da subito una polemica, l’ennesima; ma è senz’altro necessario replicare nel merito delle argomentazione dell’autore che, se paiono prestarsi ad un’apparente neutralità di giudizio, sono in realtà parte stessa del conflitto, poiché non solo egli è persona in causa, ma anche e soprattutto perché non sussiste consenso sul significato stesso dei termini ai quali fa ripetuto ricorso. Alle argomentazioni di Nusseibeh fa riscontro – e controcanto – l’intervista, sostanzialmente incolore, che la medesima testata fa a Daniel Levy, uno dei promotori di JCall, il network progressista ebraico che interviene con costanza sulle questioni relative alla negoziazione del conflitto con posizioni favorevoli alla bipartizione. Di corredo, una dura riflessione contro la politica del governo Netanyahu di Nicholas Kristof sull’International Herald Tribune e il quadro politico interno ad Israele, così come lo dipinge Vincenzo Faccioli Pintozzi per Liberal. Un articolo di un qualche interesse è invece quello che ci è offerto a firma di Daniele Raineri dal Foglio, dove si dà voce al disagio copto in Egitto, dopo il mutamento di leadership, i sommovimenti popolari e lo stallo politico nel quale il paese sta vivendo. Il timore di un’ascesa salafita sta ingenerando un vero e proprio esodo silenzioso, che fino ad oggi avrebbe riguardato almeno 93mila persone ma che potrebbe arrivare a coinvolgerne, a breve, altre 250mila, del quale le parole di Raineri danno conto. La notizia, in verità non nuova, e che costituisce in sé un gravissimo indice di come l’autunno del malcontento arabo possa trasformarsi in un pericolosissimo vaso di Pandora dei risentimenti, è ripresa da Aldo Forbice su la Nazione. Non c’è da dubitare sul fatto che la marcescenza politica e culturale delle sollevazioni popolari, con milioni di persone consegnate alla disillusione, potrebbe ritorcersi da subito contro la minoranza cristiana egiziana, poco meno di una decina di milioni di persone, corrispondenti a circa il 10 per cento dell’intera popolazione. E rischiamo di rivelarci facili profeti prevedendo che dinanzi al vuoto di iniziativa politica delle forze laiche, in sé deboli e divise; all’afasia dei poteri pubblici, che evidentemente pensavano all’accettabilità di un semplice cambio di vertice, ossia nulla di più; alle perduranti, se non lievitanti, difficoltà economiche e ai disagi nei quali vive la popolazione, il richiamo della Fratellanza musulmana potrebbe divenire irresistibile. D’altro canto, il movimento, matrice di tutti i fondamentalismi regionali, non solo di quelli sunniti, vanta un perdurante radicamento nel paese. Un discorso non dissimile andrebbe fatto per la Siria dei truci Assad, la cui caduta è senz’altro questione di tempo. Ma, anche qui, il rischio è di passare dalla padella alla brace. Peraltro, a questo mondo non c’è nulla di peggio delle illusioni: chi pensava ai sommovimenti di piazza come ad un mero esercizio di democrazia dovrà forse un poco ricredersi, essendo la collettività non guidata più simile ad un’onda che non ad altro. Dove essa vada a rifrangersi lo può dire solo il tempo. Lo sanno bene i capipopolo, sembrano saperlo un po’ di meno coloro che ingenuamente pensano che la forza delle idee e la bontà delle intenzioni possano affermarsi da sole. Così a leggere Fabio Bucciarelli, su il Fatto, che resoconta della prevedibile voglia di vendetta che muove alcuni dei protagonisti della guerra (civile?) libica di questi mesi. Così come Nadia Aissaoui e Ziad Majed su l’Internazionale, per quello che concerne la situazione dello Yemen. Ma anche a Nicolas Kulish, sempre su l’Internazionale, il quale sottolinea un fenomeno che non è solo mediorientale bensì planetario, lo scollamento tra collettività e leadership dirigenti, la sfiducia quasi viscerale dei governati verso i governati. Nulla di buono all’orizzonte, quindi. Vedremo nelle settimane a venire. Per intanto G’mar Chatimah tovah.
Claudio Vercelli