Voci a confronto

La notizia del giorno è l’accordo raggiunto fra Israele e Hamas per la liberazione di Gilad Shalit, esattamente 1924 giorni dopo il suo sequestro in territorio israeliano. Il soldato israeliano sarà rilasciato dai suoi rapitori in cambio di 1024 prigionieri arabi detenuti in Israele. (Per la notizia, si può leggere Battistini sul Corriere, ma meglio ancora il Jerusalem Post). L’accordo è molto dettagliato: un terzo di questi detenuti scontano ergastoli (hanno “le mani sporche di sangue”), la metà di loro saranno rilasciati quando Gilad Shalit sarà trasferito in Egitto, l’altra metà al suo rientro in Israele; alcuni, nominativamente elencati, potranno andare in Giudea e Samaria, un piccolo numero anche nella parte orientale di Gerusalemme, diversi tra questi avranno limitazioni alla loro libertà di movimento, la maggior parte sarà invece trasferita a Gaza, o addirittura esiliata all’estero. Nonostante delle voci iniziali nel senso contrarie, sembra che il capo militare della “seconda intifada”, il più pericoloso prigioniero nelle carceri israeliane, Magwan Barghouti, non sarà fra coloro che saranno oggetto dello scambio. Era su questi dettagli, che sono garanzie per Israele, attentamente ponderate dai servizi di sicurezza, che si era arenato il negoziato con Hamas. Ora sembra che le condizioni minime israeliane, condivise da tutti i governi di questi 5 anni, siano state accettate, e anche il direttore dello Shin Bet (il principale servizio di sicurezza interna di Israele) ha approvato il cambio. Il governo israeliano ha apporovato ieri sera l’accordo con 26 voti contro 3 (i contrari sono Lieberman, Ya’alon e Landau, come si legge in quest’altro articolo del Jerusalem Post).
Fra i commenti italiani, il più significativo è quello di Fiamma Nirenstein sul Giornale, che spiega, fra l’altro che “Liberare mille prigionieri graditi a Hamas, con le liste compilate insieme ai loro boss, significa ritrovarsi ben presto attentati terroristici rinnovati, feroci, significa che Hamas avrà un formidabile successo politico rispetto anche ad Abu Mazen, ed anche che i figli, i genitori, gli amici dei delinquenti liberati piangeranno e protesteranno prima ancora che questo avvenga. Ma Israele non abbandona mai un suo soldato, è una promessa che in un Paese democratico con meno di sette milioni di abitanti il governo deve fare senza compromessi e senza obiezioni ai genitori che altrimenti prima o poi si stenderebbero sulle strade per non far partire i loro ragazzi di diciotto anni, maschi e femmine, tutti quanti, perle destinazioni più pericolose, in quella incredibile avventura che è essere un ragazzo israeliano, curato e cresciuto come un prezioso virgulto occidentale, e poi trascinato nel vento del confine con nemici terribili, Hamas, gli Hezbollah, i siriani… Gilad proprio sul confine di Gaza è stato rapito a 20 anni, figlio di Noam e Aviva, che hanno espresso la loro ostinata, decisa, educatissima determinazione a riavere il loro bambino a casa piantando una tenda sotto l’ufficio del primo ministro, vivendovi giorno per giorno, marciando per tutte le strade d’Israele, andando in visita all’estero da ogni capo di Stato amichevole, mettendo in piedi un infaticabile movimento. Gilad è divenuto il figlio di tutti, gli sono state dedicate canzoni. Quando, se Hamas non tradisce, tornerà a casa, la gioia sarà quella di ricevere indietro un figlio perduto. Israele ha già fatto parecchi scambi pazzeschi, per tre soldati nel 1985 consegnò 1150 prigionieri, per i corpi di soldati uccisi e uno strano commerciante druso e israeliano, 450 nel 2004, e poi per i corpi di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, rapiti in Libano, consegnò agli Hezbollah alcuni fra i più orridi terroristi che si possano immaginare, fra cui Samir Kuntar, che uccise una bambina a colpi di calcio di fucile. Netanyahu ha dichiarato personalmente a Noam e Aviva che l’accordo è quasi concluso. Di certo hanno pianto tutti e tre insieme.”
L’analisi di Fiamma Nirenstein è certamente condivisibile. Bisogna aggiungere che la liberazione dei prigionieri è una mitzvà, un dovere religioso importantissimo per l’ebraismo, fin dalla Torà, che non si tratta dunque di un calcolo moderno, solo della preoccupazione per la coesione sociale, ma anche e soprattutto di un imperativo etico, di quella “scelta per la vita” che i nemici di Israele pensano sia una sua debolezza, ma che in realtà fa parte della sua grande e storica forza. I sentimenti in questa circostanza si mescolano. Vi è la gioia immensa per la liberazione di quello che abbiamo imparato a considerare un fratello minore odiosamente torturato da una detenzione illegale senza diritti e senza assistenza, contraria a tutto il diritto internazionale. E vi è la preoccupazione per le conseguenze, per l’attività dei terroristi liberati, e per il quadro internazionale. E’ chiaro per esempio, come sostiene Yaakov Lappin sul Jerusalem Post, che la liberazione rafforza molto Hamas nei confronti dell’Autorità Palestinese, l’Egitto, che ha mediato lo scambio, nei confronti della Turchia, che ha cercato invano di inserirsi. Erano ragioni contro lo scambio fino a qualche mese fa, oggi nel mutato contesto internazionale non lo sono più. Certamente questo accordo modifica i rapporti di forza nella regione. La tentazione di giudicare, di dire che esso non si doveva fare, oppure che si poteva cedere di più e prima, sono forti per chi se ne sta nella sicurezza italiana o europea. Ma questo è uno dei casi in cui bisogna lasciare agli israeliani e al loro legittimo governo, alla loro democrazia, la decisione e appoggiarla con la convinzione che Israele è adulto e maturo, che il suo sistema politico funziona, che i suoi dirigenti hanno una competenza, una dedizione e una lealtà straordinaria per il paese. Tutto ciò che nega il solo articolo che in questa giornata di Gioia induce allo sdegno, quello di Ury Avneri sul Manifesto.

Ugo Volli