Yuval Avital: “Porto a Roma i suoni del mondo”

“Non ci vuole tanta forza per cantare, è il canto che deve essere forte”. Parole sussurrate da un cantore samaritano all’orecchio del musicista Yuval Avital ai piedi del Monte Gerizim, mentre l’antica tribù saliva verso la vetta nel tradizionale pellegrinaggio per Shavuot. “Sono questi fiori invisibili, unici che voglio cogliere lungo la mia strada, conservare e condividere con il mondo” spiega il maestro Yuval, che nel suo percorso artistico ha portato il suo pubblico tra i suoni delle valli del Kazakistan, ad ascoltare i canti delle kenesse dei karaiti o ancora fra le note uniche di didgeridoo e flauti ney. “Ho sempre voluto uscire dal pensiero comune. Sin da piccolo, camminando per le vie multietniche di Gerusalemme, ascoltavo i canti delle diverse sinagoghe e sognavo di creare un giorno un ponte tra queste antiche tradizioni e la modernità”. Solo ascoltando le opere di questo artista israeliano è possibile comprendere il vero significato delle sue parole e, soprattutto, del suo lavoro.
Poco o nulla assomiglia ai suoi lavori, un fiume di collaborazioni e intrecci tra culture e tradizioni diverse. Partiture che danno vita a sonorità sconosciute, con suoni grezzi, arcaici quanto genuini che si mischiano a melodie e strumenti moderni. Persino parlare con Avital, il chitarrista compositore, è un’esperienza unica. Un susseguirsi di concetti, ricordi e richiami ad un passato, storico quanto personale, che difficilmente può lasciare indifferenti. Con il suo italiano dall’accento ebraico e con influenze milanesi Avital spiega “tendo alla ricerca dell’essenzialità; un canto preservato per oltre mille anni ha la sua energia, una forza intrinseca che tocca gli stessi punti cardinali di una melodia moderna. Lavoro per approfondire il dialogo tra strutture musicali complesse e uniche nel loro genere”.
Nato nel 1977 a Gerusalemme, ora residente a Milano, l’artista israeliano ha calcato in questi anni alcuni dei palcoscenici più importanti del mondo, portando la sua musica dall’Europa alla Cina, dal Medio Oriente all’America. I suoi concerti spesso sono veri e propri spettacoli interattivi in cui immagini, persone e suoni prendono vita sul palcoscenico. Un esempio il citato lavoro con la comunità samaritana, una delle realtà più antiche del Mediterraneo: un viaggio antropologico in cui ad affiancare la voce dei cantori samaritani troviamo complessi strumentali, musicalità elettroniche e proiezioni multimediali. Una combinazione di elementi che porta in scena la contraddittorietà come la continuità di una tradizione millenaria nel presente.
Ultima fatica di Avital la composizione Leilit (‘Notte’ in Ge- ’es, l’antica lingua degli ebrei etiopi), creata appositamente per RomaEuropa Festival 2011 (26 ottobre). “Abbiamo lavorato quattro mesi a questo progetto – racconta l’artista – ripercorrendo l’affascinante storia della cultura dei Beta- Israel, la comunità ebraica etiope che per tremila anni è vissuta totalmente isolata dal resto dell’ebraismo mondiale. Il tema sviluppato è quello della notte, Leilit infatti è un brano notturno e quattro sono le linee guida: il viaggio da una realtà concreta verso quella trascendentale rappresentata dal mondo dei Keis, i sacerdoti della comunità; il percorso verso la memoria che prende vita attraverso manoscritti antichi, fotografie e interviste; il racconto dell’esodo negli anni ’80 dei Beta-Israel, da Etiopia a Israele attraverso il Sudan. Una traversata durante la quale hanno perso la vita più di 4000 persone, narrato da due donne straordinarie, Edna e Almas; per ultimo, il viaggio nel mondo fantastico del sogno e della fiaba, la notte dei bambini”. Un progetto tanto complicato che lo stesso autore ammette di non essersi reso conto inizialmente di quanto potesse essere difficile portarlo avanti. “È stata un ricerca editoriale, musicale, antropologica a cui abbiamo dedicato molto tempo. Ma non voglio che venga presentata solo come un’esperienza etnica, nella storia degli ebrei etiopi possiamo ritrovare molto di noi stessi”. Nelle opere di Avital compare spesso l’alternanza tra buio e luce, traducibile, secondo l’autore, nella dualità della vita. “Giorno e notte sono parte integrante dell’esistenza di ciascuno di noi così come speranza e disperazione. Il buio è sia il luogo dei sogni come delle paure più oscure e private; la luce riflette le nostre aspettative, la volontà di guardare avanti ma può anche essere accecante, può disorientarci intimamente e farci perdere il senso della realtà”.
Inevitabile poi chiedere del suo rapporto con l’ebraismo che emerge, con tonalità divererse, praticamente in tutte le sue opere. Sin dai nomi di alcune composizioni come Dimdum o Kanaf. “In quanto ebreo e israeliano il pubblico, o meglio il mondo non ebraico mi chiede spesso di rappresentare la nostra tradizione, dare un assaggio della nostra cultura attraverso la musica. Io cerco di presentare qualcosa che non si inserisca nei soliti schemi. Non ho niente contro lo Shtetel né il klezmer ma non possiamo appiattirci solo su questi aspetti; perché poi diventano etichette da cui è difficile liberarsi”. E quindi con Avital si parla della tradizione askenazita bulgara, delle sonorità vibranti dei canti sinagogali sefarditi o karaiti. “Nel mio spettacolo Kolot (voci) c’è una forte immagine di lutto che intreccia dimensioni e culture diverse, in parte legate all’ebraismo in parte intrecciate con la storia moderna di Israele: sul palco c’erano una giovane cantante palestinese che cantava della Nakba (la catastrofe, per i palestinesi coincide con la nascita di Israele); un rabbino karaita che cantava della distruzione del Tempio di Gerusalemme e un cantore yemenita salmodiava la storia del sacrificio di Isacco”.
Sul rapporto con il pubblico, Avital sottolinea come in tutti questi anni abbia sempre avuto un ottima risposta dagli spettatori. “Le persone che sono venuto ai miei concerti mi hanno sempre dato moltissimo; il pubblico è straordinariamente disponibile, ricettivo e aperto a nuove esperienze. Molti sono felici di farsi accompagnare in dimensioni e storie sconosciute”. Il problema del compositore di Gerusalemme semmai sono gli organizzatori. “C’è sempre un tentativo di etichettarmi – afferma – spesso non sanno dove inserirmi perché mi dicono ‘la tua non è musica etnica, non è questo non è quello’, io però non mi sono mai curato di queste cose, non ho bisogno di definizioni per la mia musica”.
Ci lasciamo con una domanda sullo stupore: quali sonorità, quali musiche con cui è entrato in contatto in questi anni lo hanno stupito di più. La risposta è forse politicamente corretta ma rientra pienamente nella figura di questo artista poliedrico. “Ogni maestro, ogni suono, antico o moderno, quando è originale mi provoca stupore, è come se qualcosa dentro di me fremesse: vedo questi lavori invisibili prendere lentamente forma e vita. Nell’opera creativa – conclude – vi è una grande solitudine, quando più autori entrano in contattato questa solitudine viene violata per dare spazio a una nuova intimità tra sconosciuti”.

Daniel Reichel