Voci a confronto

Quasi un anno è passato da quel giorno di dicembre nel quale un povero tunisino disperato si è bruciato vivo, dando inconsciamente inizio ad un terremoto politico che ancora non si placa, e le cui conseguenze sembrano, a molti, ricordare quanto successe nella Persia poi diventata Iran. La Tunisia fu la prima a scendere in piazza, e fu anche la prima a scegliere il proprio futuro, anche se è arduo dire quanto forze esterne abbiano influenzato, nella realtà, queste scelte. Gli exit poll, come ricorda Laura Giannone su Liberal, non sembrano funzionare nei paesi del nord Africa, e così Ennahdah, che avrebbe dovuto ricevere il 20% dei voti, ne raccolse il 41% (e tuttavia va detto che molti avevano sospettato un simile risultato ndr). Per tali ragioni sembra ad alcuni commentatori che anche in Egitto sarebbe difficile fare previsioni sulle prossime elezioni. Sicuro sembra solo che il prossimo 28 novembre si inizieranno quelle complesse operazioni di voto destinate a eleggere prima il Parlamento (e già queste elezioni dureranno mesi…), e successivamente il Presidente (al momento si pensa di nominarlo in giugno). Ma intanto, dopo le recenti dimissioni del primo ministro, la Giunta militare dovrà rapidamente sceglierne un altro che governi durante la difficile stagione elettorale. Da alcuni giorni El Baradei sembra essere il favorito per tale incarico, ma pochi ricordano come costui, insignito del premio Nobel per la pace, ha dimostrato di essere un campione del doppio gioco permettendo all’Iran decisivi passi avanti nella costruzione della bomba nucleare. Se questo è il carattere dell’uomo, si deve riflettere ai risultati che un suo governo potrà assicurare ai suoi amici di tanti anni. Questa realtà è ben presente a Gian Micalessin che sul Giornale ricorda anche come, ancora una volta, i Fratelli Musulmani, dopo le preghiere dell’ultimo venerdì, hanno lasciato la piazza, astutamente, ai loro avversari liberali e laici, gli “utili idioti” pronti ad immolarsi al posto loro. El Baradei oggi fa appunto comodo sia ai Fratelli Musulmani, che grazie a lui non devono scendere a compromessi coi militari, sia ai militari stessi, che per il momento possono restare al potere. Solo in seguito i Fratelli Musulmani dovranno trattare la resa dei militari che, da Nasser ad oggi, hanno sempre governato l’Egitto. Se poi questo processo politico ricalcherà quello dell’Iran di Khomeini, oggi non lo ha scritto nessuno, ma appare sempre più evidente. È poi possibile andare alle urne con tanta violenza nelle strade, si chiede Gilles Kepel su Repubblica? Domanda legittima, che tuttavia fa astrazione da quella che è la realtà di un popolo dove la nostra logica non ha valore. Ed appare anche strano come i copti non si rendano ancora conto della tragicità del loro futuro prossimo; Maria Laura Conte e Senous Meriem, su Avvenire, intervistano il capo ufficio stampa di quei copti che oggi manifestano in piazza Tahrir coi giovani, illudendosi che i Fratelli Musulmani, domani, non prendano saldamente in mano il controllo del paese.
Mentre l’Egitto è al centro delle notizie di giornali e televisioni, la Siria continua nel suo tragico cammino, con la Russia che sta mandando chiari segnali di rifiuto di qualsiasi cambiamento (alcune navi da guerra stanno per arrivare davanti alle coste siriane per far comprendere al mondo che Damasco non cadrà come Tripoli), e la stessa Libia appare sempre più nelle mani di fanatici islamisti (ed incerto è il futuro dei nostri investimenti e dei nostri approvvigionamenti petroliferi). Nel frattempo in Libano l’America registra una pesante sconfitta in seguito all’individuazione della propria rete spionistica (forse con ramificazioni anche in Iran), come scrive Mirko Molteni su Libero (anche questa è una vicenda da seguire con attenzione per le pesanti ripercussioni che avrà inevitabilmente sul terreno, e forse anche a Washington).
Con l’attenzione di tutti concentrata nei paesi arabi, poche sono oggi le notizie che ci arrivano da Israele, ma merita leggere l’attenta analisi di Giulio Meotti sulla realtà dei “coloni” della Giudea e della Samaria. La Corte Suprema israeliana, oltre che tanti paesi occidentali, sembrano obbligare il governo Netanyahu a mandare l’esercito a sgomberare 105 avamposti considerati illegali (dei quali solo 34 sorti durante periodi di amministrazioni di destra, mentre gli altri sono stati permessi, quando non ispirati, dai governi di Rabin, Peres e Barak). Molti di questi “coloni” vivono in containers o in case prefabbricate, sorte magari a difesa di antenne militari poste in luoghi strategicamente importanti (e spesso di grande bellezza, dominando paesaggi che spaziano dal Mar Morto alla costa mediterranea). Questi avamposti, ricorda poi Meotti, sono sorti su terre che o appartengono allo Stato (prima erano dell’impero ottomano), o erano abbandonate, oppure sono state da loro acquistate. Sono queste terre che, per alcuni, sono state “liberate”, mentre per altri, con gran confusione, avrebbero dovuto diventare terre di scambio. Questi “coloni” sono poi da paragonare a coloro che fecero le stesse scelte prima e subito dopo il ‘48, e vivono una vita pericolosa, sempre nel mirino dei cecchini, sia quando sono in casa, sia quando si spostano in macchina. La loro utilità di supporto alla sorveglianza dei territori sembra innegabile, e quanto successe a Gaza dopo che furono sgomberati sta ad ammonimento; tuttavia Netanyahu, che si allontanò da Sharon quando portò via tutti gli ebrei dalla Striscia, e che votò contro tale iniziativa, appare oggi deciso a proseguire sulla stessa strada, pur col rischio di vedere una spaccatura nel proprio governo. Un’altra grave spaccatura avverrebbe poi tra le persone, se si pensa che coloro che dovranno sgomberarli sono spesso compagni, nell’esercito, di quelli che dovranno essere allontanati. Un altro grave dramma, per Israele, che, come sempre, Meotti ha saputo cogliere con grande sensibilità, senza nascondere che, se l’Iran colpirà, non vi sarà differenza tra coloro che saranno al di qua e al di là della ben nota linea.
Infine va registrata con soddisfazione la dichiarazione di scuse dei Gialappa’s che avevano usato il termine di “rabbino” come sinonimo di “tirchio”. Siamo lieti di tale dichiarazione, ripresa da Avvenire, ma resta grave la realtà dei nostri giorni; questi fatti non avvengono per caso, né per un mero errore. Lo ricordavo la settimana scorsa all’inizio della mia rassegna, parlando dell’antigiudaismo, e non posso non ripeterlo oggi.

Emanuel Segre Amar