Rav Laras: “Gli anni della mia formazione”

Il rav Giuseppe Laras, rabbino capo di Ancona e presidente emerito dell’Assemblea Rabbinica Italiana, ha rilasciato al quotidiano Il Resto del Carlino la seguente intervista.
“Quello con Ancona – così inizia l’intervista – è stato un ritorno. Arrivai qui giovane, avevo 23 o 24 anni, e questa fu la mia prima comunità come rabbino. Studiavo legge a Torino e per non interrompere l’università decisi di proseguire nella vicina Macerata, dove allora insegnava Stefano Rodotà, giovanissimo e brillante professore, di cui serbo un ottimo ricordo. Ho ancora in mente il tragitto che facevo, passando per Osimo e Treia. Ad Ancona non avevo collaboratori ed inizialmente fui aiutato dal buono e anziano officiante della sinagoga, che disgraziatamente morì poco dopo il mio arrivo. Tutto ricadde così sulle mie spalle. Ricordo che fui intimorito dall’incarico, anche perché la gente marchigiana all’inizio è un po’ chiusa: nel tempo, tuttavia, le cose sono andate bene e la comunità si è aperta. A trattenermi fu soprattutto il pensiero della grande fiducia che queste persone avevano riposto in me. Qui ho fatto esperienze importanti, mi sono impratichito, ho scoperto una città molto bella e ricca di storia”.
Lei è un figlio della Shoah: non teme che il Giorno della memoria rischi oggi di sprofondare nella retorica o di servire a qualcuno per far acquisire una sorta di presentabilità, magari col rischio di ottenere risultati contrari aquelli per i quali fu pensato?
Il problema esiste, il Giorno della memoria sta purtroppo diventando una sorta di liturgia ripetitiva. Ma è bene evitare di farlo abolire come qualcuno ritiene. Bisogna cercare invece di dargli sempre più un contenuto attraverso testimonianze e riflessioni, con finalità educative affinché non accada mai più. Oggi, per ragioni anagrafiche, i testimoni diretti stanno scomparendo come pure i figli della Shoah. Il pericolo di una rimozione collettiva è quindi incombente. Aggiungo che da parte della comunità ebraica c’è un forte interesse a che non aumenti l’antisemitismo, che cova ancora sotto la cenere, e che nella società, come nella politica, non emerga e non si rafforzi una tendenza all’intolleranza verso le minoranze. Si inizia così e si finisce come nel 1938.
Lei, in Italia e in Europa, può essere considerato uno dei più autorevoli eredi di una tradizione antichissima: qual è il suo lascito alle nuove generazioni? Cosa pensa debba essere recuperato oggi tra ciò che si sta perdendo?
C’è un diffuso senso di egocentrismo che fa sentire le persone al centro della realtà e al contempo apparentemente sciolte da qualsivoglia legame: la conseguenza è la scarsa capacità di avvertire l’altro come persona che sta nella stessa tua condizione. Dovremmo invertire questa tendenza usando più la testimonianza che la predicazione. Tuttavia vi sono difficoltà in un mondo come questo, che offre modelli – a mio avviso – non meritevoli di essere tali. Pensi ad esempio a trasmissioni come l’Isola dei Famosi, il Grande Fratello o Amici, come pure allo “spettacolo” devastante offerto di recente dal nostro sistema politico. Non dobbiamo lasciarci cullare sulle onde del tempo, subendolo, ma essere in grado di andare controcorrente, tentando di attribuire senso, valore e spessore a quanto facciamo.
Lei, con coraggio e determinazione, è stato un precursore e il maggiore fautore del dialogo tra ebrei e cristiani assieme al cardinal Martini: qual è lo stato attuale del confronto tra queste due religioni e culture?
La situazione del dialogo è cambiata in peggio. Martini inaugurò a Milano, e da lì in Italia e in Europa, la stagione del confronto e del dialogo ebraico-cristiano e io fui accanto a lui. Martini ha aperto una strada in un mondo in cui, né da parte cristiana né da parte ebraica, c’era (e talvolta c’è) grande disponibilità. Siamo andati avanti assieme, per anni, nonostante le molte perplessità delle rispettive comunità: da parte ebraica per il timore di una volontà di conversione e per i secoli trascorsi di persecuzioni di matrice cristiana, da parte cattolica in nome dell’accusa di “deicidio”, della teologia della sostituzione, e dell’occultamento quasi bimillenario delle radici ebraiche della fede cristiana. Sempre a Milano, ricordo la sincera vicinanza e l’operosa collaborazione avute anche con il cardinale Tettamanzi, mio caro amico. Un limite del dialogo resta tuttavia, da sempre, la sua dimensione verticistica, che non coinvolge ad esempio i parroci, quelli direttamente a contatto con i fedeli. Con la malattia di Martini e l’avvento di Benedetto XVI la stagione del dialogo si è indebolita e rallentata, ma l’importante è che non ci si fermi. Al momento i presupposti sono che esso continui e le occasioni non mancano. Penso, ad esempio, alla recente visita di una delegazione ecclesiastica presso la nostra sinagoga anconetana in occasione del Congresso Eucaristico. Ricordo con grande piacere l’intenso incontro con l’arcivescovo Menichelli e i cardinali Bagnasco e Re. Bisogna che ci attrezziamo tutti per arrivare assieme alla meta della collaborazione e della piena riconciliazione.
Nel gennaio 2010 decise di non presenziare alla visita di papa Benedetto XVI alla sinagoga di Roma in seguito al pronunciamento del pontefice sulle “virtù eroiche” di Pio XII: rifarebbe quella scelta che fece tanto discutere?
Certo che rifarei quella scelta. Anche perché, da allora, poco è cambiato. Presi quella iniziativa senza fare chiasso: mi limitai a rilasciare un’intervista ad un giornale tedesco che ebbe vasta eco e attirò su di me anche le critiche di una parte della comunità ebraica. Quelle frasi del pontefice mi sembrarono quasi come una provocazione. Non avrebbe potuto pronunciare quelle parole, ad esempio, dopo la visita? Certo non immediatamente a ridosso. E poi, vogliamo parlare delle “virtù eroiche”? Secondo noi è stato grave che un papa, una così alta guida morale, non abbia denunciato al mondo l’atroce malvagità del nazismo e dell’antisemitismo.
Un auspicio per l’Italia, alle prese con una delle prove più importanti della sua storia recente?
L’Italia, come ha fatto in passato, uscirà bene anche da questa situazione. Speriamo che le cose migliorino e che questo governo non venga azzoppato presto, altrimenti non si andrà lontano. L’auspicio è che in Italia possa prevalere un senso di altruismo che consenta di andare oltre il “particulare”, contribuendo a creare una società il più possibile giusta. L’orizzonte attuale è davvero troppo basso.
Quando ci fu il dibattito politico pro o contro i Pacs si dichiarò favorevole. La pensa sempre così?
Sono sempre a favore, certo. L’ordinamento giuridico di uno Stato esiste per tutelare tutti i cittadini, nessuno escluso; lo Stato non coincide con le singole confessioni religiose che a tale riguardo assumono legittimamente differenziate posizioni. Non è cosa ovvia?
Come definirebbe, con due o tre aggettivi, i giovani di oggi? Quale testo biblico e quale filosofo consiglierebbe loro di leggere?
Sono alla ricerca di qualcosa che vorrebbero ma che non sanno cos’è. Qualcosa che dia loro un senso che sembra invece sfuggire. A questi giovani consiglierei il Qoheleth certamente, ma ancor più il libro di Ruth, dove sono forti i sentimenti di bontà e generosità, forza, speranza, affetto vibrante. E poi consiglierei loro di guardare bene l’affresco di Raffaello “La scuola di Atene”, nei Musei vaticani, in particolare quel dito che punta verso l’alto, che indica la necessità di alzare l’orizzonte.
Qual è lo stato di salute dell’Università italiana?
Lo Stato non dedica sufficienti risorse economiche alla Scuola e all’Università. In generale, il corpo docente non è molto preparato. Inoltre le risorse giovani che vorrebbero o potrebbero dedicarsi all’insegnamento vengono bloccate e frustrate. Sul fronte politico, negli anni sono state scelte persone palesemente non all’altezza del compito loro affidato, oppure non ci sono state idee e progetti forti o, ancora, c’è stata l’arroganza di non chiedere consigli a chi opera alacramente nell’università.

Cristiano Bendin (Il Resto del Carlino)