Voci a confronto

L’Iran torna di scena (per la verità non era mai del tutto scomparso) con l’attacco spintaneo (pardon, spontaneo) all’ambasciata britannica e le prevedibili, oltre che inevitabili, reazioni diplomatiche. Così gli articoli di Beda Romano su il Sole 24 Ore, Roberto Fabbri per il Giornalee, Barbara Uglietti su Avvenire, Gabriel Bertinetto su l’Unità e di Luigi Offeddu su il Corriere della Sera. Il tutto si inserisce dentro i delicati meccanismi di ruolo e di potere che la «primavera araba» e i sempiterni giochi di potere a Teheran alimentano, sullo sfondo di uno scenario, quello mediterraneo e mediorientale, che è ben lontano da qualsiasi stabilizzazione. Plausibile l’ipotesi, quindi, che da un anno a questa parte si sia entrati in un periodo di instabilità permanente, destinta ancora a durare nel tempo, dove ai già trascorsi colpi di scena altri se ne potrebbero sommare. Così si esprime, ad esempio, Nassir Abdulaziz al-Nasser, presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, intervistato da Massimo Gaggi per il Corriere della Sera. Dalle parole, peraltro diplomaticamente alquanto incolori, dell’alto esponente qatarino, assurto al ruolo parlamentare, emerge anche il senso dell’impasse che domina un po’ tutti i grandi organismi internazionali rispetto alle crisi che il nostro pianeta, ed in particolare la sua regione mediterranea e mediorientale, sta vivendo. L’impressione a leggere certe parole, quindi, è che si abbia a che fare con una élite dirigente autoreferenziata, che parla o dice (o crede) di parlare a nome di una collettività che non rappresenta o con la quale non ha effettivi punti di contatto e scambio. Il fatto che l’Onu, come anche gli organismi collettanei e rappresentativi di molte organizzazione sovranazionali quali la Nato e l’Unione Europea, sia al centro di questa crisi della rappresentanza, ci racconta di come stiamo un po’ tutti vivendo una sorta di discrasia tra il voler essere (ossia il rimanere capaci di governarci e di costituirci come protagonisti di quei processi decisionali i cui effetti ricadono poi, inesorabilmente, sulle nostre teste) e il dovere essere (che ci impone una passività che fa il paio con il senso dell’impotenza e dell’espropriazione). La crisi che stiamo attraversando, in fondo, si nutre anche di questa secca ambivalenza. Da segnalare in tal senso, in una giornata peraltro piuttosto scarsa di notizie di rilievo, il commento di Antonio Ferrari, riportato dal Corriere della Sera (così come anche l’intervista di Ilaria Costa per Liberal a Ragui Sami Farag, esponente politico del «Blocco egiziano», coalizione di forze laiche e musulmane nata con il dopo Mubarak), relativo all’andamento dei processi elettorali nei paesi, soprattutto della costa mediterranea dell’Africa, dopo i sommovimenti dei mesi scorsi. La vittoria delle forze che, a vario titolo, si richiamano all’islamismo, è una tendenza che va confermandosi, seguendo un copione che già si era registrato a Gaza nel 2006, all’allora tornata legislativa. Così anche Bernardo Valli su la Repubblica e Azzurra Meringolo per il Riformista, laddove si intuisce che i partiti e le organizzazioni che a vario titolo si rifanno all’Islam hanno una matrice (e un radicamento) sociale che ha sostituito le forze di sinistra, soprattutto laddove queste si sono compromesse, a vario titolo, con la gestione del potere nei decenni trascorsi. La forza del fondamentalismo, non necessariamente quello più brutale ma di certo sempre e comunque deferente verso una concezione della società tributaria della centralità del “diritto divino” shariatico, sta in questa indiscutibile capacità di inserirsi nei processi collettivi, in un momento di grande confusione, dando ad essi un calco, una forma plausibile e, fino a prova contraria, rassicurante. Qualità, quest’ultima, destinata a rivelarsi prima o poi ben poco veritiera. Ma tant’è. In ciò i “partiti islamici” (espressione peraltro generica, che identifica una pluralità di soggetti politici, oggi uniti dal fatto che sono soggetti elettorali, ovvero protagonisti delle manifestazioni di voto) manifestano un seguito ed una credibilità che non è riconosciuta ai raggruppamenti laici. Il fatto stesso che si presentino con liste che usano come elemento di richiamo parole evocative quali “libertà” e “giustizia” sociale (due bandiere delle recenti proteste), rimanda non tanto ad un inesistente progetto politico quanto alla capacità di mettersi in sintonia con gli umori collettivi e, soprattutto, con il senso di smarrimento di molti elettori arabi. Da ciò deriva il fatto che i dividenti delle lotte di quest’ultimo anno stiano andando in mano a quelle forze che da esse erano risultate, in qualche modo, scavalcate ma che successivamente, dopo l’inevitabile riflusso delle manifestazioni più intense e partecipate, all’atto del riscontro elettorale, hanno saputo più e meglio di altri presentarsi come strutture organizzate. Era un esito per più aspetti prevedibile, con il quale però adesso occorre confrontarsi, soprattutto di fronte alla posizione “neo-ottomana” della Turchia di Recep Tayyip Erdogan e all’eterno doppiogiochismo dell’Arabia Saudita. In questo tornante l’assenza italiana sembra brillare, come rilevano Monica Peruzzi per la Nazione e lo stesso Sole 24 Ore in una nota intitolata a «nuova diplomazia e prove di equilibrio». Che la situazione sia delicata e le decisioni da prendere non facili sono fatti risaputi. Proprio per questo, tuttavia, non si può non rimarcare la debolezza del nostro paese che, aspirando a suo tempo ad un ruolo di media potenza, si è oramai ridotto a spettatore, più o meno compartecipe, di decisioni assunte in altre sedi. La mancanza di capacità decisionale, l’autoascrizione di funzioni passive, imitative, protese ad assecondare gli equilibri del momento senza alcun respiro strategico sono fattori la cui incidenza, maturata a partire dagli anni Novanta, vengono ora al pettine come i proverbiali nodi. Che non ci tocchi di rimanerne strozzati, nel mentre le vertenze apertesi in quest’ultimo anno con i partner dell’Unione Europea stanno dimostrando quanto pesi il fatto che dalla mancata valorizzazione del nostro ruolo strategico nel Mediterraneo possano derivare soprattutto subalternità nostre anche in altri tavoli di trattativa.

Claudio Vercelli