Voci a confronto
Giornata scarsa di notizie di una qualche rilevanza se si fa eccezione per la crisi diplomatica tra Ankara e Parigi nel merito dell’approvazione, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della legge che rende reato negare il massacro degli armeni compiuto da parte del vecchio Impero ottomano tra il 1915-1916, e poi negato dallo Stato turco. Così soprattutto gli articoli di Maurizio Stefanini, su Libero, e di Anna Maria Merlo per il Manifesto. Le ragioni di questa scelta, che tuttavia risulta non del tutto inedita (esistendo nel paese già una normativa, la legge Gayssot del 1990, che vieta la negazione dello sterminio degli ebrei), e soprattutto della sua tempistica, sono ascritte da alcuni commentatori a moventi di ordine prettamente elettorale, potendo contare il paese su diverse centinaia di migliaia di elettori di origine armena. La comunità diasporica in terra francese è la quinta, in ordine di dimensioni, dopo quella russa, americana, iraniana e autoctona, quest’ultima vivente nei territori storici dell’Armenia. In Francia già sussisteva una dichiarazione dei principi, compresa in una legge del 2001, nella quale si dichiarava il riconoscimento dell’avvenuto sterminio ai danni della comunità armena. Tuttavia, oltre a quella soglia, fino ad oggi, non ci si era ancora spinti. La norma, contenuta nella nuova legge, reprime adesso la «contestazione o la minimizzazione grossolana dell’esistenza di uno o vari crimini di genocidio quando questi sono riconosciuti come tali dalla legge francese» con il ricorso alla vie penali, tra corpose ammende pecuniarie e detenzioni fino ad un anno di carcere. Al di là delle frizioni politiche che la vicenda è comunque destinata a fomentare ancora, si riapre anche la discussione sull’opportunità di ricorrere alla punibilità delle affermazioni (come anche delle omissioni di riconoscimento, quand’esse si impongono) che negano l’evidenza di fatti di rilievo collettivo, soprattutto quand’essi si evidenzino per la loro dimensione tragica. I confini tra opinione, sia pure molto discutibile, e diffamazione o, se si preferisce, tra libertà di espressione (quand’anche essa sia spinta ai limiti della deliberata provocazione) e offesa, sono estremamente labili e rinviano alla più generale questione del nesso tra libertà e licenza, ovverosia tra esercizio dell’autonomia individuale, in un contesto di responsabilità collettive, e assunzione di condotte che esulano da queste ultime, con la deliberata intenzione di arrecare danno a terzi (o comunque, in assenza di qualsiasi considerazione degli effetti della propria azione sulla dignità degli altri). Il negazionismo, tuttavia, in quanto fenomeno sociale -non trattandosi in alcun modo di una corrente storiografica bensì di un modo di affrontare la realtà dei fatti manipolandone il senso -, non è affare dei soli giudici o, quanto meno, non è riducibile al solo interrogativo sulla sua punibilità penale. C’è una più generale questione relativa alla sua sanzione sociale, ossia ai modi, ai criteri, agli strumenti con i quali la tentazione di contestare alla realtà di esistere (o di essere esistita) va trattata dalla collettività in generale, e nel merito degli anticorpi che a tale riguardo devono manifestarsi, senza i quali nessuna condanna può assolvere alla sua funzione, quella cioè di evitare la recidività. L’altra notizia del giorno, che tuttavia non ha alcun sapore di novità, rimanda agli effetti di decomposizione politica e sociale che il ritiro definitivo degli americani dall’Irak sta causando all’intero paese. Nella giornata trascorsa gli attentati, a ripetizione, hanno causato poco meno di un centinaio di morti e un numero doppio di feriti. Gli articoli sono svariati e riguardano diverse testate, per la firma di Gian Micalessin su il Giornale (con un commento per il medesimo quotidiano, di Vittorio Dan Segre, al quale si affianca quello di Vittorio Parsi per l’Avvenire), di Camille Eid sempre su l’Avvenire, di Francesca Maretta su Liberazione, di Marco Berti per il Messaggero, Giordano Stabile per la Stampa, Bernardo Valli su Repubblica e l’intervista di Ennio Caretto a Richard Pearle, già sottosegretario alla Difesa nelle amministrazioni Reagan e Bush, per il Corriere della Sera. Le prospettive di guerra civile sono insomma di nuovo alle porte rivelando l’artificiosità dell’intera struttura politica irachena così come, più in generale, la pervasiva instabilità del Medio Oriente. L’attuale disimpegno americano fa da contraltare al “decennio muscolare” intrapreso dall’amministrazione Bush, in uno scenario geopolitico trasformatosi repentinamente negli ultimi dieci anni. La complessa partita egemonica, che vede più attori giocare su tavoli e con ruoli diversi, è ben lontana dall’esserci conclusa, alimentandosi sempre più della debolezza di Washington come garante dei vacchi (ed esausti) equilibri.
Claudio Vercelli