Voci a confronto

Già altre volte, nel passato, Fatah e Hamas hanno annunciato di essersi messi d’accordo tra di loro, passo questo giudicato da molti necessario se vogliono aspirare a poter gestire un eventuale futuro Stato palestinese. Nell’accordo ufficializzato ora il presidente del Fatah Abu Mazen dovrebbe sostituire il primo ministro Fayyad e portare i palestinesi alle elezioni (entro maggio?). Molti commentatori osservano tuttavia che in questa nuova situazione sarà proprio Abu Mazen a rimetterci, mentre Hamas non farà nessuna concessione ai suoi rivali dentro la Striscia. Ne parla, tra gli altri, Fulvio Scaglione su Avvenire, e non dimentica di definire questo accordo come un matrimonio di interessi, considerando l’attrattiva del miliardo di euro che arriva ogni anno nelle mani dei governanti palestinesi. Peccato che, a mio parere, il commentatore sbagli quando scrive che i dirigenti palestinesi devono “riportare la questione dei palestinesi al centro di un’agenda internazionale intasata”, e quando accusa Netanyahu di firmare più spesso accordi con Hamas (caso Shalit) che con Fatah. Ne parla anche un editoriale del Financial Times che sbaglia anch’esso quando scrive che Hamas avrebbe accettato, nel 2007, di riconoscere lo Stato di Israele e le linee del ’67, e quando illude i suoi lettori parlando di voci moderate, e quindi da incoraggiare, all’interno di Hamas. Interessante come sempre, e anche divertente da leggere, l’articolo di Giulio Meotti (il secondo di una serie che sta uscendo sul Foglio) dedicato a Meir Dagan, fino ad un anno fa capo del Mossad; nel 2000 si pensava che entro tre anni l’Iran si sarebbe dotato della bomba nucleare, ma forse proprio grazie alle azioni dei servizi segreti (virus informatici, uccisioni mirate, strani incidenti), la bomba non c’è ancora. Meotti fa una accurata carrellata di tante azioni portate a termine dal Mossad, ma rimane il dubbio, forse presente anche nella testa di Netanyahu, se queste basteranno per impedire, e non solo per ritardare, la costruzione della bomba iraniana. A Damasco è arrivato il ministro degli Esteri della Russia, accompagnato dal capo dei servizi segreti esteri; ne parlano tutti i quotidiani, e Franco Venturini sul Corriere osserva che la Russia, che deve a tutti i costi difendere la propria unica base mediterranea, ha capito che questo è il momento propizio per sfruttare il declino del ruolo degli USA in Medio Oriente. Mentre il rais Assad continua a portare avanti la sua politica di morte accompagnata da vuote promesse e da bugie alle quali più nessuno crede (finalmente, ma perché proprio adesso? ndr), sua moglie Asma rompe un lungo silenzio scrivendo una lettera al londinese Times nella quale assicura di essere impegnata a “costruire dialoghi e ponti”, e ad “aiutare le famiglie delle vittime”. Ne parla Cecilia Zecchinelli sul Corriere, osservando che tutte le cause che Asma appoggiava in passato erano, in realtà, pura e semplice pubblicità. Lorenzo Trombetta, su Europa, annuncia che presso il Tribunale dell’Aja sono finalmente pronte le prove (partite dalle verifiche delle telefonate fatte coi cellulari) che collegano Hezbollah non solo alla morte dell’ex primo ministro libanese Hariri, ma a quelle di altri politici libanesi colpevoli di opporsi alla pax siriana ed al predominio paramilitare del movimento sciita. Nei prossimi giorni se ne saprà probabilmente di più. Ad un lettore che lo interroga sulle ambiguità della risoluzione ONU N° 242 del ’67 (ritiro dai o da territori occupati?), Romano risponde con una panoramica su altre ambiguità che hanno coinvolto l’Italia coloniale quando firmava i suoi accordi in Abissinia. Avrebbe fatto meglio a non dimenticare di ricordare le offerte fatte da Israele di restituire i territori conquistati, offerte che furono respinte dai paesi arabi coi tre ben noti NO di Khartoum. Ancora una volta, e dispiace doverlo osservare, i lettori del Corriere non sono stati correttamente informati da Sergio Romano. Sempre sul Corriere si trova una breve lettera scritta da Moni Ovadia a difesa del vignettista Vauro (e di se stesso); scrive Ovadia che Vauro non avrebbe “mostrificato il naso della giornalista ebrea”, e bene gli risponde Battista (il quale, va ricordato, fu il primo a denunciare la sentenza del tribunale italiano che condanna Caldarola) definendo “puerile” e “grossolano” il modo in cui Ovadia nega la realtà. Per fortuna esistono ancora delle firme come quella di Pierluigi Battista. Interessante e preciso Giuliano Zincone che sul Foglio spiega che il negazionismo non può essere considerato un reato d’opinione, e non gli si deve permettere di diventare uno strumento di pura propaganda. Preoccupa infine la lettrice che scrive al Fatto Quotidiano dichiarandosi infastidita per il monopolio della Shoah rispetto ai tanti Olocausti dimenticati, in primis quello della cattolicissima popolazione polacca. Le risponde bene Furio Colombo, ma bisogna riflettere su quanto è scarsa la conoscenza dei fatti anche tra coloro che leggono i giornali (ma sarà poi solo scarsa conoscenza?).

Emanuel Segre Amar