Hollywood alle prese con il Talmud

Oscar o non Oscar, tutta Hollywood ne parla. “Significa che ci sono cose più importanti della verità.” “Ad esempio?” “La famiglia.” Con questa risposta lapidaria, Shkolnik figlio, rivela il suo piccolo dramma personale. Già, perché i protagonisti del film israeliano Footnote sono due Shkolnik: padre e figlio. Entrambi professori di Talmud all’Università ebraica, il padre è caduto nel dimenticatoio, il figlio è all’apice del successo. Poi l’imprevisto, Shkolnik padre riceve una telefonata, ha vinto il premio più importante di Israele come riconoscimento per i suoi lavori. Una boccata di aria fresca, uno scorcio di luce, una rivalsa. Il colore sembra tingere di nuovo il volto di quell’uomo così terribilmente grigio. Ma è un errore, un banale, dolorosissimo errore. Avete presente quando a Miss Italia dicono che ha passato la selezione una ragazza con un determinato numero, ma qualche secondo dopo si scusano per l’increscioso errore di distrazione e la fanno retrocedere in favore di un’altra? Il vincitore non è il padre. Mister luminare di Israele non è quell’uomo incupito dalla vita. Anche i diligenti funzionari israeliani sbagliano. Colpa dello stesso cognome. Perché il podio è di Shkolnik junior e proprio a lui viene comunicato il malinteso. E ora cosa fare? Come dirlo a papà?
Ma sopratutto, dirlo a papà? Se invece gli regalassi questa vittoria? Competizione e affetto, timore e rispetto incorniciano questa storia dolceamara che racconta uno dei rapporti più difficili fin dai tempi della Torah, quello tra padre e figlio. Un topos che regna incontrastato da Lettera al padre di Kafka a Con gli occhi chiusi di Tozzi. Alessandro Piperno nel suo ultimo libro, Inseparabili, scrive “…in realtà il più delle volte non erano altro che padri, ovvero individui sprovvisti dalla natura di capacità empatica e cautela misericordiosa”. Il regista Joseph Cedar (nell’immagine a sinistra) descrive il padre come uno studioso più rigido e maggiormente legato alla parola scritta, mentre il figlio guarda al compromesso, basandosi sulla natura flessibile dell’oralità. Due modalità che li mettono in una posizione antitetica anche nella vita di tutti i giorni. Uno scontro generazionale a suon di Talmud. Cedar, che ha scritto e diretto il film, sarà probabilmente il regista di uno degli episodi dell’annunciato film corale Jerusalem, I love you (per il progetto Cities of love che ha come illustri precedenti Paris, Je t’aime e New york, I love you). Lior Ashkenazi, protagonista con Shlomo Bar-Aba, ha recitato in Matrimonio tardivo e in Be tipul, che ha ispirato il telefilm americano In Treatment. Il regista ha più volte raccontato del fascino mitico che il dipartimento di Talmud della Hebrew University esercita. Ma sopratutto di epici scontri e rivalità tra scolari continuamente alla ricerca di quello che si avvicina di più alla realtà e di quello che è l’errore. Allora ecco un film che si muove abilmente e con un pizzico di ironia su concetti assoluti come l’errore e rapporti assoluti come quello tra padre e figlio. Cercando risposte e ponendosi sempre più domande.
Penelope Draper, Pagine Ebraiche, marzo 2012
In Darkness, un viaggio straziante nella profondità delle tenebre
In Darkness, un titolo che evoca istantaneamente la paura, presenze sinistre, l’impossibilità di fuggire se non tastando maldestramente alla ricerca di qualche punto di riferimento. Un tipico titolo da film horror da guardare stringendo forte i braccioli della poltrona. Ma le tenebre possono uscire dallo schermo, invaderci e farci tornare a quello stato infantile di paura irrazionale. Le tenebare possono essere ispirate a una storia vera. E questo è il nostro caso. Lvov, 1943, una cittadina stracciata e sfilacciata dalla guerra. Nessuno è al sicuro, tutti si guardano con sospetto, a Socha viene offerta una pericolosa quanto redditizia opportunità: nascondere degli ebrei in cambio di denaro. E quale luogo migliore se non nelle gallerie sotterranee dove si trova l’impianto fognario che per lavoro conosce molto bene? Da questo punto il film si sdoppia: le vicende degli ebrei sotto la terra che vivono nell’umidità e nel terrore costante e la gente che invece cammina inconsapevolmente sopra le loro teste. Il film è tratto dal libro di Robert Marshall ed è dedicato a Marek Edelman che fu uno dei promotori della coraggiosa rivolta del ghetto di Varsavia. La regista Agnieszka Holland ricostruisce con grande cura un ambiente claustrofobico che porta perfino gli spettatori a volere disperatamente uno sprazzo aperto sul cielo. Racconta di quanto, nonostante i numerosi film che trattano il tema della Shoah, sia necessario porsi la domanda: “Dove era finito l’uomo? Come ha fatto l’anima a tingersi di nero?” La Holland sottolinea quanto sia stato importante rendere i personaggi ebrei degli umani con le loro imperfezioni che li rendono reali, quindi insistendo ancora di più sul dovere di salvarli. Socha è un personaggio a tutto tondo, che cambia con il passare del tempo, il suo non è più un mero business ma diventa la causa per la quale lottare. Per dare realismo al lungometraggio sono stati fatti sopralluoghi nelle gallerie sotterranee di Berlino e Lodz ed è stato studiato il dialetto polacco di Lvov. Il direttore della fotografia Jolanta Dylewska evidenzia come il buio sia una metafora e come Socha, il salvatore, sia sempre seguito da una luce caratteristica. Un film che gira intorno alla dualità e alla contrapposizione: la luce e il buio, sopra la terra e sotto di essa, universalizzando questa storia particolare con la situazione generale dello sciagurato periodo. Ma le opposizioni vengono mitigate anche dal grigio, dalla profonda analisi psicologica dei personaggi che li rende vicini a noi. E questo acuisce la drammaticità, proprio il fatto che si parli di gente comune, non cavalieri senza macchia o maschere caricaturali, avvicina terribilmente lo spettatore allo schermo. Non sono i nostri sfortunati correligionari polacchi del 1943 a vivere con i piedi bagnati e il cibo centellinato, improvvisamente Lvov siamo noi. E calano le tenebre.
Pagine Ebraiche, marzo 2012