Voci a confronto
Andare ad Auschwitz fa sempre bene? Non sobbalzino sulle sedie i nostri lettori poiché non stiamo parlando della deportazione ma del buon uso della memoria di essa, alla quale, dopo i dibattiti e le discussioni in corso tra gli “addetti ai lavori”, soprattutto intorno alla ricorrenza del Giorno della memoria, ci rinvia una lettera scritta dagli studenti del Liceo linguistico e delle Scienze umane Leonardo da Vinci di Alba e pubblicata da il Fatto. Reduci da un viaggio del «Treno della memoria», iniziativa che già da diversi anni interessa alcuni regioni, soprattutto del nord d’Italia, hanno resocontato le impressioni e le emozioni vissute durante quell’esperienza. La quale è messa a rischio, nella sua continuità organizzativa, dai tagli a pioggia che si sono abbattuti sulle amministrazioni pubbliche che la sostengono con i loro fondi. Un evento, quest’ultimo, che sta obbligando a ripensare le modalità di offerta (quantità ma soprattutto qualità) che sono andate definendosi nell’ultima decina d’anni rispetto alla comunicazione pubblica sulla Shoah. Poiché esse influiscono profondamente su come la storia è comunicata e, quindi, assimilata da coloro che non vissero quei fatti. Si è a più riprese sostenuto, in molti ambiti, che i viaggi della memoria siano lo strumento attraverso il quale ovviare alla scomparsa dei testimoni, portando soprattutto gli studenti, ovvero dei giovani cittadini in fase di formazione, nei luoghi della morte. In questa strategia della comunicazione diretta, esperienziale, c’è senz’altro del fondamento ma non mancano, del pari, alcune obiezioni di principio che, a detta di certuni, vanno contemperate agli innegabili fattori di positività: qualsiasi viaggio ad Auschwitz, come in qualsiasi altro Lager, implica apriori un percorso di formazione, non riducibile a qualche incontro di taglio prevalentemente informativo. In altre parole, bisogna avvicinarsi all’universo concentrazionario per passi progressivi, all’interno di un percorso educativo e formativo che, oltre a rispettare i parametri della buona comunicazione storica (di superficialità e sensazionalismo abbondano le strade dell’inferno), si impegni soprattutto ad evitare che l’esperienza di ciò che resta dei KL e dei VL sia ricondotta ad una dimensione prevalentemente o esclusivamente emotiva. Quest’ultima è infatti senz’altro in accordo con certo “comune sentire”, di cui i media sono grandi produttori, ma assai distante dalla riflessività che è richiesta nella costruzione di una cittadinanza attiva e consapevole. Non di meno è bene interrogarsi su quali siano i vettori della comunicazione pubblica in materia, essendo sempre più spesso subentrate nella gestione di tale attività formativa agenzie e organizzazioni private, a volte legate al mondo cattolico, che di fatto ottengono una sorta di appalto di servizio dalle amministrazioni pubbliche (le quali, da sole, non avrebbe le sufficienti competenze per mantenere in piedi iniziative complesse, di tale taglio). È senz’altro vero che il discorso sulle deportazioni – al plurale – implica una visuale completa, allargata ad una pluralità di soggetti, quali furono le categorie vittime di esse e, al giorno d’oggi, estesa all’insieme dei cittadini europei. Non è però meno vero che la dinamica dello sterminio razziale riguardo esclusivamente l’ebraismo e gli ebrei, coinvolgendo in misura più contenuta i popoli nomadi e le popolazioni slave, in questo secondo caso soprattutto nel merito dell’atroce trattamento riservato ai prigionieri di guerra sovietici. Terribile “primazia” quella ebraica, in buona sostanza, trattandosi di un primato capovolto, di una “cima abissale”. Allora, non si tratta di rivendicare qualsivoglia esclusiva nella formazione e nella comunicazione in materia – fatto di per sé improponibile non solo da un punto di vista materiale (non se ne avrebbe la forza, ovvero le risorse) e tanto meno civile, divenendo altrimenti espressione di astratto e autoreferenziato particolarismo – ma di capire, fatto che invece a volte fa difetto, cosa ne rimanga della memoria della Shoah nel momento in cui essa diventa sì patrimonio pubblico ma passando inesorabilmente attraverso il filtro della comunicazione e della socializzazione da parte di soggetti che appartengono al mondo cattolico. La mia non vuole essere una considerazione polemica ma analitica (ed eventualmente critica). In altre parole, esiste un dualismo insuperabile tra Yom ha-Shoah e Giorno della memoria. Ma se il primo ha anche una forte dimensione privata, demandando all’imperativo del ricordo come esercizio senz’altro collettivo ma vissuto in una proiezione familiare, e comunque con una forte connessione con Israele e il suo calendario civile, il secondo è esclusivamente legato alla sfera della comunicazione di massa in un contesto che ebraico non è per nulla. Fa da corredo a queste riflessioni l’articolo di Marcello Flores sull’inserto del Corriere della Sera, dove la’utore, storico di vaglia, parla dei negazionismi. Se qualcuno peraltro dubitasse ancora della pervasività dell’ideologia cattolica nel nostro paese, sospendendo peraltro qualsiasi giudizio di valore su di essa, può leggersi l’articolo di Andrea Garibaldi su il Corriere della Sera, riguardo all’ipotesi che il pagamento dell’Ici/Imu sia esteso anche alle scuole cattoliche, in particolare a quelle gestite dai padri salesiani e dai gesuiti. Fanno da corredo a tali considerazioni le delucidazioni di merito offerte, sulla medesima testata, da Marina Iossa. Rassegna stampa volutamente sintetica e tematica, quella di oggi, dinanzi alle notizie e ai commenti che nelle settimane a venire non mancheranno di occupare gli spazi di queste e di altre pagine.
Claudio Vercelli