Voci a confronto

Quale sarà il destino di Mahmoud Ahmadinejad? Le cose paiono non andargli troppo bene, almeno a giudicare dall’esito delle elezioni legislative, appena svoltesi, dove i 290 seggi in palio per il Majlis, il Parlamento, sembrano essere andati per almeno due terzi al blocco conservatore, capitanato dall’ayatollah Ali Khamenei, «Guida suprema dello Stato», ossia successore di Ruhollāh Khomeiny. Gian Micalessin, nel suo articolo che compare oggi sul Giornale, parla della «fine di un rivoluzionario». In parte può anche essera vera questa interpretazione ma è ancor più certo che il populismo fascistoide, che è alla radice dell’ideologia dell’ex sindaco di Teheran, risulta adesso assai meno fascinoso di quanto non potesse essserlo negli anni trascorsi. Si leggano, in tal senso, le considerazioni di Alberto Negri su il Sole 24 Ore e di Ugo Papi per l’Unità nonché la cronaca di Gabriel Bertinetto sempre su quest’ultimo quotidiano. L’anno di svolta è stato senz’altro il 2009, quando la violenta repressione dei movimento riformista (che i tradizionalisti e i conservatori hanno osservato rimanendo, per così dire, alla finestra), ha fatto maturare un processo di separazione tra forze che era già nell’aria e che poi ha preso ulteriore vigore dalla spregiudicatezza con la quale Ahmadinejad ha condotto sia la politica estera che la fallimentare politica economica del grande paese. La storia dei precedenti al quadro per come si va configurando è ricostruita da Lorenzo Cremonesi su il Corriere della Sera, mentre l’insieme dei risultati, ancora non definitivi, così come li richiama Luca Geronico su il Giornale, attribuirebbe l’assegnazione certa di almeno 150 scranni nella misura del 75 per cento (112 seggi) ai «principalisti» e all’area che ruota intorno ad essi, poco meno di una trentina al campo riformista e solo 10 alla lista direttamente collegata al Presidente della Repubblica. Il composito insieme di forze che ruota intorno a Khamenei ne uscirebbe quindi vincitore, fatto che conterà per le prossime elezioni presidenziali, che si terranno l’anno a venire. Nota significativa, tra le altre, è che a Teheran, megalopoli di più di 8 milioni e mezzo di abitanti, avrebbero votato non più del 48 per cento degli aventi diritto, con un tasso di diserzione dalle urne che a livello nazionale si assesterebbe intorno al 35 per cento. Che Ahmadinejad stia “sulle croste” a molti, anche (e soprattutto) all’interno del suo paese, è fatto noto. Le sue scelte in materia di politica estera, a partire dal suo cieco, feroce e fervente antisionismo, sono sempre state condizionate dalla necessità di raccogliere una vasta eco tra i suoi elettori che, tradizionalmente, sono costituiti da quella generazione di militanti “laici” (nel senso di non riconducibili ai poteri religiosi stabilmente insediatisi alla guida della Jomhuri-ye Eslāmi-ye Irān, la Repubblica islamica dell’Iran), meglio conosciuti come «elemetti», formatisi nella sanguinosissima guerra che contrappose il paese all’Irak di Saddam Hussein per il controllo dello Shatt al ‘Arab tra il 1980 e il 1988, insiema alla gran massa di giovani “plebei”, appartenenti alle classi più povere. Va ricordato che in Iran circa il 75 per cento della popolazione ha meno di 35 anni. Le falangi del potere del satrapo di Teheran affondano in questo robusto connubio che si contrappone ai suoi due nemici storici. Il primo, apertamente dichiarato come tale, è costituito dalle classi medie e dalla borghesia dei grandi centri urbani, i cui giovani diedero vita, nel 2009, all’«onda verde» riformista. Come le cose siano andate lo sappiamo bene, laddove alla violenta repressione esercitata dai Pasdaran e dei Basiji, le due grandi milizie paramilitari, seguì il riflusso del movimento, posto nella condizione di non trovare la possibilità di dare uno sbocco politico alle sue rivendicazioni. Il secondo avversario storico di Ahmadinejad sono i «turbanti», il vasto clero sciita che più di qualsiasi altro ceto sociale ha beneficiato degli effetti della «rivoluzione islamista» del 1978-1979, accedendo al controllo diretto delle fonti energetiche, strategiche dal punto di vista della produzione nazionale, fonte di ricchezza per l’intensa esportazione del petrolio, indispensabili per l’economia del paese. I ripetuti, ossessivi richiami del calimero iraniano alla necessità di dotarsi di energia nucleare, oltre ad essere una coerente espressione della concezione geopolitica del Medio Oriente che egli nutre, fondata sul paradigma anti-israeliano, sono funzionali al disegno che a tutt’oggi coltiva di sottrarre al sacerdozio musulmana, che nei suoi vertici si esprime come una vera e propria cleptocrazia, la fonte della sua ricchezza e l’istanza più autentica della sua legittimazione. Il deficit energetico del paese è peraltro cosa nota da molto tempo; un fatto, quest’ultimo, che si salda alla perdurante crisi economica, in parte causata – o comunque accentuata – dall’isolamento dell’Iran nel consesso internazionale, e che è oggi, per il paese nelsuo insieme, la principale ragione di un diffuso malcontento. In Siria, intanto, prosegue pressoché indisturbata l’opera di macelleria sociale del clan Assad, laddove la città di Homs è l’epicentro di una violenza di Stato senza fine. Così Lucia Capuzzi su il Giornale, dove si riprendono le stime ufficiose di Human Rights Watch, che parla di circa 9mila vittime complessive, di cui almeno 7.200 civili. Due articoli da leggere sono quelli che compaiono sull’Avvenire di oggi, il primo a firma di Anna Foa e il secondo per la penna di Edoardo Castagna. Se Foa si sofferma sulla importanza di istituire una Giornata internazionale dei Giusti, avendo essa una forte valenza di pedagogia civile, il secondo si interroga sul rischio di un’inflazione della “memoria pubblica”, raccogliendo le considerazioni critiche dello storico Ernesto Galli della Loggia, legate alla problematicità dei percorsi di istituzionalizzazione del ricordo, laddove gli effetti possono essere risultare opposti a quelli desiderati. Più di colore, per così dire, è poi il reportage di Marek Halter sul Birobidzhan, la repubbblica autonoma ebraica istituita in Siberia da Stalin nel 1932, quando dava corpo alla sua politica delle nazionalità, firmato per la Repubblica. Sempre sul medesimo quotidiano Susanna Nirenstein firma un’intervista a Steve Sem-Sandberg, il cui romanzo di successo, «Gli spodestati», dedicato alla vita (e alla morte) del ghetto di Lodz, esce ora anche in lingua italiana.
Claudio Vercelli