Voci a confronto

Dopo lo strazio civile e umano, con la conseguente la copertura mediatica, della strage consumatasi nei giorni scorsi a Tolosa, è seguita, inesorabile, la bonaccia. L’andamento delle notizie assume un po’ quello del mare che si rifrange con le onde sulla spiaggia (o forse dovremmo dire, in questo caso, contro gli scogli): al momento di piena segue, in un moto pendolare, il ritrarsi per un certo lasso di tempo dell’attenzione. Peraltro, di come da subito questa si sia rivolta verso l’assassino – la caccia, l’identificazione, il conflitto tra polizia e il criminale, e poi il prevedibile, tragico epilogo – e abbia assai poco coinvolto le vittime, fatte oggetto di un frettoloso e freddo commiato da parte dell’opinione pubblica, lo riscontra oggi Furio Colombo su il Fatto quotidiano, rispondendo ad un lettore che lo sollecita ad una riflessione al riguardo. Già Donatella Di Cesare, su il Riformista di venerdì 23 marzo, notava, tra le altre cose, la inadeguatezza del linguaggio (oltre all’asfitticità degli strumenti normativi per perseguire chi – e sono veramente tanti – senza arrivare al gesto omicida tuttavia lo istiga) per definire questi eventi. Il ricorso ad un vocabolario che evoca l’eccezionalità (ad esempio, il bislacco e inflazionato rimando alla «follia»), e quindi la presunta occasionalità e la transitorietà che connoterebbero il ripetersi di certi gesti che, invece, si inquadrano in una lunga teoria di pratiche criminali, è il segno sia di una mancata comprensione delle radici dell’odio che stanno dietro a condotte congruenti alle pulsioni omicide, sia dell’incomprensione del quadro storico e ideologico entro il quale certi pensieri si traducono in fatti. Peraltro, Mohamed Merah era persona già nota ai servizi di sicurezza francesi, come ci segnalano Guido Olimpo sul Corriere della Sera e Fausto Biloslavo su il Giornale. Inutile, tuttavia, il nascondersi dietro un dito, invocando e salmodiando la cantilena dell’omessa prevenzione come unica matrice dei disastri. Può entrare in campo anche questa (mai deflettere dalla sicurezza) ma non può sostituirsi alla consapevolezza che la questione degli atti di terrorismo, sia per mano di un singolo attentatore che come risultante di un progetto di più ampio respiro, chiami soprattutto in causa il sottile crinale che nelle nostre società intercorre tra immedesimazione e indifferenza, una linea sempre incerta che separa la vigilanza collettiva dal lassismo colpevole. In altre parole, la questione del trattamento del fenomeno terroristico è problema del consorzio umano, e non solo degli apparati repressivi né, tanto meno, dei destinatari dei suoi catastrofici effetti. Non è una questione di “specialisti” né un problema di minoranze ma chiama in causa la responsabilità civile, che è tale poiché appartiene a tutti. La vicenda di Tolosa, oltre al riconsegnarci all’angoscia per la minaccia, sempre incombente, rinvia a questo passaggio critico: se il problema del male è inteso come qualcosa di connaturato non all’individuo in quanto tale ma ad aspetti del suo agire sociale può allora essere affrontato come sfida collettiva, altrimenti rischia di risultare vincitore, nella sua reiterazione sfrontata e ossessiva, poiché inteso come affare di pochi (i soli carnefici e le vittime). Se non addirittura ribaltarsi in una sua maldestra esaltazione, di taglio falsamente moralistico, come nel caso di quella professoressa di Rouen, la cui condotta è segnalata da Lorenzo Mondo su la Stampa (ma anche dal già citato Biloslavo), la quale ha chiesto un minuto di silenzio in memoria di Merah, «vittima di una infanzia infelice». Del pari al monito di Nietzsche (suona un poco strano richiamare tale autore in questa sede, ma tant’è), evocato da Aldo Grasso sul Corriere della Sera, per commentare un’altra vicenda, quella di un ex ministro della nostra Repubblica, giulivo e compiaciuto accanto ad una manifestante che augura ad una ministra, invece in carica, il «cimitero»: «lasciare accadere un male che si può impedire significa praticamente commetterlo». Fu così nel passato e rischia di esserlo ancora nel presente del pari al futuro prossimo. E se al passato facciamo mente locale conviene allora leggersi l’intervento di Alberto Cavaglion, sempre su la Stampa, dove racconta del suo rapporto con il celeberrimo volume di Primo Levi «Se questo è un uomo», di cui egli è il curatore della nuova edizione, da poco in libreria. La natura di testo aperto dell’opera è posta in rilievo da Cavaglion, il quale da molti anni sta lavorando su queste ed altre opere, non solo come storico della Shoah ma anche e soprattutto come letterato e, non di meno, studioso della letteratura. In tali vesti ci offre chiavi di interpretazione che cercano di “liberare” la complessa intelaiatura di cui è fatta la scrittura dell’autore e testimone torinese da quella patina di ambigua ovvietà che l’avere cucito sulla sua persona le vesti di personaggio ha ingenerato in molti lettori. Si tratta di un percorso, quello di un rapporto critico, ovvero problematizzante, con un testo che ci consegna un ritratto definitivo di alcuni aspetti del Novecento, che si impone tanti più oggi, dal momento che la distanza dagli eventi raccontati si fa sempre più ampia ma l’intensità della memoria non meno presente e, quindi, dolente. Almeno per chi vuole ricordare, senza schiacciarsi su un presente senza tempo, quello dell’istante fine a sé.

Claudio Vercelli