Voci a confronto

Si è conclusa la vicenda dello sciopero della fame dei detenuti palestinesi (notizie sull’Unità, su Repubblica e sul Tempo). Israele ha restituito ai detenuti alcuni privilegi che erano stati tolti loro durante la fase finale del rapimento di Gilad Shalit, quando era necessario fare pressione su Hamas, come la possibilità di ricevere visite da Gaza e ha accettato alcune altre richieste, come la cessazione dell’isolamento di alcuni che avevano contravvenuto a regole del carcere, la ripresa delle possibilità di seguire corsi universitari e l’ampliamento dei canali televisivi accessibili, in cambio dell’impegno dei detenuti a cessare le turbolenze. Contrariamente alla propaganda anti-israeliana, l’accordo sottolinea le buone condizione di detenzione degli arabi e il numero limitato dei “detenuti amministrativi”, che sono 331 su 4500 circa, trattenuti in una condizione analoga al nostro fermo di polizia secondo una pratica giuridica che risale alla legge britannica. Sempre in Israele, secondo una cronaca di Federica Zoja su Avvenire, vi è molta preoccupazione per la possibilità di infiltrazioni terroriste dalla Siria verso il Golan, dopo gli ultimi attentati in Siria e i conflitti armati che ormai si estendono anche al Libano.
Da leggere l’intervista di Giulio Meotti sul Foglio a un consigliere di Netanyahu sulla “doppia faccia” dell’Iran nelle trattative con l’Occidente sulla questione nucleare e in un altro articolo firmato con lo pseudonimo “Bottom Foggy” sempre sul Foglio, l’analisi sul successo di queste tattiche nel “contenimento degli Stati Uniti”. E’ una questione allarmante che continua a non avere alcuna soluzione e in cui Europa e Stati Uniti stanno prendendo sempre più la posizione dello struzzo, ignorando un problema pericolosissimo invece di affrontarlo.
Per quanto riguarda l’Italia, un paio di notizie mettono in rilievo il peso crescente dell’organizzazione religiosa islamica: a Brescia è partita la prima “telemoschea”, cioè la predicazione televisiva musulmana che ha tanta importanza nei paesi arabi (Matteo Sacchi sul Giornale) e a Padova è partita una scuola per imam, non si capisce bene quanto controllata e da chi sostenuta (Jenner Meletti su Repubblica, con commento di Renzo Guolo)
Ho lasciato alla fine, ma solo per sottolinearne l’interesse, un grande articolo di Paolo Mieli, che ricostruisce sul Corriere un tema di grande importanza per l’ebraismo italiano: il distacco progressivo fra la sinistra comunista e l’ebraismo intorno al rapporto con Israele. Dopo la condivisione della lotta al nazifascismo e dell’appoggio alla fondazione di Israele, il primo strappo avviene nel ’52, con l’adesione del Pci alle campagne antisemite di Stalin. Le tappe successive, dall’appoggio a Nasser nel ’56 e nel ’67 all’adesione al terrorismo palestinese coinvolsero non solo i comunisti da Pajetta al giovane Berlinguer, ma la quasi totalità della sinistra, compresi per esempio Scalfari e Craxi e praticamente tutti gli intellettuali organici, con l’eccezione notevole di singole personalità come Nenni e Pasolini, o di gruppi minoritari come i repubblicani e i radicali. Mieli ricostruisce la tormentata evoluzione degli ebrei che si erano identificati nel progetto comunista, le tensioni interne, le lacerazioni talvolta anche familiari, il faticoso tragitto di chi dovette respingere il “ricatto antisionista” posto dalla sinistra agli ebrei. Dato che questo ricatto è ancora vivo e le posizioni della sinistra non sono cambiate, la ricostruzione di Mieli che sintetizza numerose ricerche storiografiche sul tema è assai preziosa per capire la collocazione dell’ebraismo italiano ancora oggi e le sue divisioni interne.

Ugo Volli