Voci a confronto
Giornate tristi quelle che stiamo vivendo, assediati da notizie luttuose e tragiche. Il terremoto di questa notte, che pure non occupa ancora le pagine dei giornali ma, soprattutto, l’attacco terroristico di ieri ad una scuola brindisina, campeggiano sui mezzi di comunicazione, occupandone un po’ tutti gli spazi. Le notizie in campo ebraico scolorano dinanzi al quadro di urgenza che altri eventi ci segnalano. Il criminale gesto consumatosi all’ingresso dell’istituto scolastico, su cui ovviamente tutti i quotidiani sono prodighi di notizie (per parte nostra si rinvia all’articolo di Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera), la cui matrice risulta ancora essere incerta, ci consegna, in quanto italiani, incerti e spaventati all’angoscia della violenza per mano tanto ignota quanto determinata. In ambito ebraico la memoria è andata, da subito, al vile attentato palestinese del 9 novembre 1982, alla conclusione di Sukkot, dinanzi al Tempio maggiore, quando Stefano Gay Taché perse la vita. Ma le analogie, a partire dalla vigliaccata infame di colpire giovani inermi, con il martilogio ebraico e israeliano, sono innumerevoli. Una ragione di più, se mai ce ne fosse bisogno, per comprendere e immedesimarsi nella pena infinita che i congiunti della vittima e i parenti dei feriti stanno vivendo in queste ore dense e strazianti. Non di meno, un motivo ulteriore per denunciare la natura perfida e doppiamente assassina (di vite e di speranze) che il terrorismo riveste, cercando, attraverso l’uccisione di incolpevoli, di annichilire un’intera comunità. Inutile dirci che già lo sappiamo; più utile dire ad altri che è bene che ne prendano coscienza, in un paese, come il nostro, dove la lunga stagione della «strategia della tensione», costellata di treni che saltavano in aria e di bombe collocate nei luoghi di socialità, si è conclusa con una successione incredibile di proscioglimenti e di non luoghi a procedere, come nel caso ultimo della sentenza d’appello dell’aprile scorso, che ha mandato liberi, poiché ritenuti non responsabili, gli imputati per il processo per la strage di piazza della Loggia. Per ritornare invece ai nostri temi, una volta tanto, malgrado tutto, meno gravosi, segnaliamo, saltando un po’ di pagina in pagina, alcune possibili letture. Furio Colombo su il Fatto, rispondendo ad una lettera nel merito dell’uso dell’espressione «lobby ebraica» da parte di un politico, ne denuncia l’ambiguità semantica e, di riflesso, civile e morale, gravida com’è di significati razzisti. Il problema, in altri termini, non sta nel sostantivo ma nell’aggettivo che, in Europa e, segnatamente, in Italia, assume da subito una connotazione che rimanda ai discorsi stratificatisi nel corso del tempo, laddove la declinazione ideologica, fondata sulla retorica del complotto, ha una sedimentazione così dura da rendere impraticabile un ricorso neutro al termine medesimo. Poiché, come ci ammoniva Carlo Levi, «le parole sono pietre» e possono lapidare una parte della società. Niccolò Scaffai su Alias, supplemento domenicale del Manifesto, ritorna sulla ricca riedizione, ora commentata da Alberto Cavaglion, della celeberrima opera-documento di Primo Levi dedicata alla sua esperienza del sistema concentrazionario. La rilettura che lo studioso torinese fa di «Se questo è un uomo» è al contempo originale e organica al testo: senza tradirne i contenuti si esercita in quella che definisce «inattualità» di Levi, laddove quest’ultimo ci è offerto non solo come testimone del suo tempo ma anche e soprattutto come narratore a tutto tondo, in quanto titolare di una «passione letteraria» profonda che fa tutt’uno con la materia trattata. È questo un modo per avvicinarsi alle sue opere senza esserne travolti o, alternativamente, travolgere l’autore con aspettative fuori campo, come a volte è invece capitato. Levi ha sempre vissuto la sua attività seguendo una pluralità di tracciati dei quali quello letterario e narrativo non era secondo ad altri. Per quanto riguarda un richiamo alla storia si può leggere l’articolo di Boris Pahor su il Sole 24 Ore che rinvia alla sua esperienza di detenuto a Dora Mittelbau, il Lager nazista dove il regime fece costruire, tra il 1943 e il 1945, le armi “miracolose” che avrebbero dovuto salvarlo dall’ecatombe bellica. Su altri versanti, a partire dai conflitti mediorientali, si vedano invece il corsivo di Franco Venturini per il Corriere della Sera e l’articolo del Sole 24 Ore riguardo all’exit strategy dall’Afghanistan, peso morto per gli Stati Uniti e le potenze occidentali, impegnate ancora in una guerra a bassa tensione che da quasi dieci anni segna il passo. L’irruzione sulla scena internazionale di François Hollande, che non ha nascosto la sua intenzione di arrivare al ritiro del contingente francese (dopo la defezione olandese del 2010, quella canadese del 2011 e quella già annunciata dagli australiani) entro la fine di quest’anno, si incrocia con la scarsa propensione americana a continuare a mantenere un corpo di spedizione di quasi centomila uomini in un paese dove nulla cambia. Il giro di boa si avrà con le prossime elezioni presidenziali, quando Obama o il suo successore decideranno non tanto sul da farsi ma sul come farlo.
Claudio Vercelli