Voci a confronto

Quando i faraoni cadono…i topi ballano. I giornali di oggi riportano con la dovuta evidenza la condanna all’ergastolo che la corte giudicante egiziana ha comminato all’oramai ex rais cairota Hosni Mubarak. Di lui Domenico Quirico, come del suo trentennale esercizio del potere, ne fa un ritratto su la Stampa. Si preconizzava la pena di morte ma così non è stato. Non di meno i suoi figli sono stati mandati liberi, la qual cosa lascia intendere la volontà di non dare corso ad un bagno di sangue familiare. Disteso su di una barella (come oramai fa, o gli è imposto di fare, da quando è stato detronizzato e deve comparire dietro le sbarre di una cella), quasi immobile, con gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole, in cuore suo probabilmente maldicente nei confronti di un popolo che senz’altro considera ingrato ma che, a suo volta, lo giudica come il fantasma di un despota, nel mentre il suo vecchio entourage, dopo averlo disarcionato, si affanna a presentarsi come il «nuovo che avanza» contrapposto alla presenza islamica della Fratellanza musulmana e dei minacciosi salafiti, Mubarak è divenuto in questi mesi una sorta di icona della situazione mediorientale, una gattopardesca raffigurazione dell’immobilismo dei regimi e della crisi delle società civili. La cristallizzazione politica dell’Egitto contemporaneo rimanda, più in generale, al mancato ricambio che è conseguito dai fermenti ingenerati dalla «primavera araba»: troppo fragili i partiti e le organizzazioni laiche; inesistente la volontà di dare corso ad autentiche riforme delle amministrazioni nazionali, a partire dagli eserciti; eccessivi i pesi che derivano dalle difficoltà economiche che attraversano l’intera regione; scarso o nullo l’orizzonte del futuro, quindi. Non è un caso, peraltro, che a precipitare nel vuoto siano stati quei paesi dove maggiori erano i problemi che già attanagliano le economie nazionali, mentre quelli che potevano contare su una maggiore solidità hanno potuto proseguire nella continuità della gestione del potere. Peraltro, i moti di quest’ultimo anno e mezzo non hanno avviato nessuna reale transizione poiché il binomio pane e libertà, che li aveva pur attraversati, non costituisce di per sé un’alternativa ai gruppi di dominio, permanentemente in sella nella regione. Così, nel suo giudizio, Gian Micalessin su il Giornale , dove per l’Egitto si parla di un «ritorno al passato», contraddistinto dalla contrapposizione tra il leader islamista Mohammed Morsy e colui che è espressione dei militari, il già premier Ahmed Shafiq. Vale la pena di citare, a tal proposito, qualche passo dell’articolo, laddove si mette in rilievo l’accordo, quanto meno implicito, tra i Fratelli Musulmani e l’esercito (quest’ultimo unica costola attiva del paese, detentore della chiave degli equilibri politici ma anche dei pencolanti assetti economici): «Tra quei due vasi si ferro si infrangono i sogni di democrazia, libero mercato e rispetto dei diritti umani germogliati in piazza Tahir [n.d.r., la piazza centrale del Cairo dove si sono tenute le maggiori manifestazini popolari]. Sogni evanescenti, privi di leader e di una concreta base politica. Sogni manovrati da un esercito deciso, 15 mesi fa, a bloccare un Faraone pronto a lasciare all’insulso figlio Gamal le chiavi del regno. Piani assecondati dai Fratelli Musulmani consapevoli che un’immediata discesa in piazza avrebbe spinto i militari a reagire con il pugno di ferro. Nacque così […] l’accordo non scritto tra militari e fondamentalisti che lasciò piazza Tahrir alle folle senza potere e senza leader. Quell’alleanza contronatura è la madre del caos, l’inizio di una Rivoluzione nata morta. I Fratelli Musulmani una volta conquistato il Parlamento sono stati i primi a tradire la piazza archiviando la prospettiva di un islam democratico». Andrea Fontana, per il Giorno , registra a sua volta l’”autoprocesso” con il quale il regime cairota ha cercato di mantenersi in equilibrio, dando in pasto all’opinione pubblica di un paese dove buona parte degli abitanti vive con un reddito non superiore ai cinquanta euro al mese, l’ottantaquatrenne Mubarak. Al riguardo, «l’intero blocco di potere in Egitto è una derivazione diretta del vecchio regime, ed è aggrappato alla necessità di una transizione senza ghigliottina; perché, una volta azionata la lama, sulla scaletta per il patibolo possono salirci tutti quanti». Carlo Panella, su Libero , registra la condanna ponziopilatesca del rais cairota come «una sentenza palesemente iniqua, per certi aspetti tragicomica…una condanna meritata, ma incredibilmente accompagnata dall’assoluzione di tutti i suoi coimputati». Lo zampino delle tetre forze armate si è quindi palesato, in questa come in altre circostanze, e sta contando nel tentativo di imporre, anche con un’abbondante serie di brogli elettorali, il loro candidato Shafiq alle presidenziali. Il tenore dei commenti è un po’ qausi sempre lo stesso su tutta la stampa nazionale. Così ancora Eric Salerno, in un’analisi per il Messaggero , dove si afferma che la condanna manifesta la «volontà dei giudici stessi di mettere una pietra sopra un intero periodo storico ignorando trenta anni di malgoverno, corruzione, torture e assassini» di cui Mubarak è corresponsabile e, come tale, non di certo l’unico autore. Più sfumato è invece Bernardo Valli, su Repubblica , dove parla di una «rivoluzione» che sarebbe «in mezzo al guado», mettendo in rilievo il vero nocciolo duro del confronto, quello tra islamisti ed esercito, due segmenti di poteri variamente articolati, tra di loro antagonistici. Per l’autore rimane significativo il fatto che si sia celebrato un processo (anche mediatico) ad un uomo che fino ad un anno e mezzo fa sembrava inamovibile. Da ciò ne deriverebbe un monito, anche e soprattutto per quei despoti, come gli Assad, che continuano a tirare i fili dei loro interessi colpendo la popolazione senza alcuna pietà. Considerazioni sul piano del diritto sono quelle di Gianni Riotta per la Stampa , dove l’esito del processo è invece ritenuto «dignitoso» poiché sancirebbe che i moti popolari non sono destinati a concludersi con un’ordalia. Comunque si voglia leggere la condanna, rimane il fatto che essa fotografa la condizione di inerzialità in cui versa il paese. L’unica eccezione, ed è triste nonché preoccupante il riscontarlo ancora una volta, è quindi costituita dalla presenza strutturata delle organizzazioni islamiste, da tempo radicate in Egitto, come nei paesi mediorientali, prima come fondazioni umanitarie e circuiti di assistenza (tanto più preziose in luoghi dove la presenza dello Stato è inesistente), oggi come formazioni politiche. Altro, fatta qualche debita eccezione, proprio non si vede. Ad una veloce rassegna delle pagine dei giornali si ritrovano poi gli articoli di cronaca, variamente argomentati, come quelli per la firma di Michele Farina e Cecilia Zecchinelli sul Corriere della Sera (dove si parla di un senile Mubarak dallo sguardo marmoreo che, alla lettura della sentenza, con le lacrime al volto, dichiara che lui in prigione non intende andarci), di Rolla Scolari per il Giornale (che mette in rilievo invece gli atteggiamenti antagonistici tra i detrattori del vecchio leader, moderatamente entusiasti per la condanna, che avrebbero voluto però ben più severa, e i vecchi sostenitori, perlopiù camaleontizzatisi per non essere individuati, che confidano adesso di voltare pagina continuando a garantirsi una condizione di privilegi facendo pagare pegno al solo faraone decaduto), di Maurizio Stefanini su Libero , di Vincenzo Nigro per Repubblica , di Umberto De Giovannangeli su l’Unità, di Marino Collacciani per il Tempo, di Ibrahim Refat su la Stampa e Ugo Tramballi per il Sole 24 Ore . Lo stesso Ugo Tramballi, per la medesima testata, mette in rilievo come la situazione economica del paese, strategico per gli equilibri mediterranei e mediorientali, sia molto problematica. Un deficit annuale che si aggira intorno all’8,7 per cento del Pil, la caduta delle riserve valutarie, la netta dipendenza dalle importazione per il soddisfacimento del fabbisogno di beni di prima necessita (come i prodotti cerealicoli e il petrolio), il tracollo del turismo e la crisi dell’industria, elementi ai quali si accompagna la forte disoccupazione, sono il segno delle gravi difficoltà in cui versa la società egiziana. A questo quadro, di per sé assai poco rassicurante, si accompagna una condizione divenuta oramai permanente di instabilità politica, che ha dato le sue ripetute manifestazioni nell’ultimo anno e mezzo. Basti pensare ai ripetuti attacchi contra la minoranza cristiana copta, l’assalto all’ambasciata israeliana, le violenze di piazza. Il susseguirsi di tornate elettorale, le legislative di novembre prima e poi le presidenziali di due settimane fa, è ben lontano dal potere garantire una stabilizzazione, soprattutto dinanzi ad una sostanziale assenza di capacità decisionale. Ancora una volta si ripresenta l’ingombrante presenza dell’esercito, al potere de facto dal 1952 e unico detentore di una strategia precisa, quella dell’autoconservazione. L’altro nervo scoperto in questi giorni è la crisi siriana, di cui ci dà un resoconto Luca Geronico su l’Avvenire . La dimensione del conflitto civile è oramai conclamata. Il rischio è che si trascenda in una guerra di tutti contro tutti, nel mentre gli Assad dilazionano il tempo che segnerà la loro decadenza, pressochè certa ma la cui data è ancora imprevedibile. La strage di Hula, denunciata anche dall’Organizzazione delle Nazioni Unite come atto da attribuire al regime, non ha fatto altro che esacerbare le innumerevoli tensioni che accompagnano e frazionano l’intero paese. Bashir al-Assad può contare ancora sul prezioso sostegno della Russia, mentre i paesi del Golfo sarebbero favorevoli ad un intervento militare per stroncare il regime ma, tra molti, il timore che il trapasso possa rivelarsi pericolosissimo prende di giorno in giorno sempre più corpo. Insomma, il rischio è che si passi dalla padella alla brace. La crisi siriana si riflette peraltro sui precari equilibri interconfessionali del Libano – come segnala Guido Olimpo su il Corriere della Sera – dove in una serie di scontri, nel nord, a Tripoli, sono morte una settantina di persone. Dopi di che possiamo andare velocemente ai fatti italiani, con un paio di richiami. Un ricordo di Sabatino Finzi, sopravvissuto ad Auschwitz, Lager nel quale era stato deportato quando era ancora minorenne, e deceduto il 24 maggio scorso. ci è oggi offerto da Francesco di Majo su l’Opinione . Sulla saga del Vaticano, un serial senza conclusione (a quale puntata siamo giunti? Se ne è perso il conto), tra corvi, papi, papabili, porporati e porpore in assenza di pudore, si veda infine l’articolo del sapido Marco Politi per il Fatto quotidiano .

Claudio Vercelli