Voci a confronto

Rassegna relativamente asciutta, questa domenica, potendoci così soffermare di più su alcuni articoli che trattano argomenti di riflessione che non nel merito della cronaca. Possiamo allora partire da quanto scrive Marco Ventura per il Corriere della Sera, riflettendo sul programma «Religio West», promosso dall’Istituto universitario di Firenze, che ha ad obiettivo l’indagine sul nesso che intercorre tra populismi e fondamentalismi contemporanei. Si tratta di un tema molto interessante e di assoluta attualità, assurto a rilevanza dal momento in cui, con il partire degli anni Ottanta, si colse quanto sia il primo che il secondo costituissero una crescente risposta all’incipiente crisi della sovranità degli Stati nazionali. Al movimento tellurico che i processi di globalizzazione hanno comportato per la società mondiale, e in particolare modo per la politica, con la definitiva consunzione degli equilibri costituitisi grazie al bipolarismo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è risposto con un ripiegamento sulla dimensione identitaria di cui populismo e fondamentalismo sono due contenitori per così dire ideali, non costituendo in sé progetto politico, e neanche dottrina, ma «strategia» di condotta basata sull’enfatizzazione del ruolo degli spazi e di chi in essi si trova a vivere. Per molti aspetti non si tratta di un processo inedito, recuperando semmai elementi che già hanno caratterizzato la politica delle società moderne nei momenti della loro maggiore crisi. Si pensi, a tale riguardo, agli anni Trenta del secolo scorso. Tuttavia, il suo rinnovarsi in un contesto di forte omogeneizzazione, ingenerata dalla pervasività dei modelli culturali legati al mercato, induce ad ulteriori indagini di merito. Gli elementi del binomio sono molteplici ma possono essere così riassunti: funzione missionaria della militanza politica; visione a tratti escatologica dell’orizzonte temporale; forte valorizzazione della dimensione del «noi», inteso come una sorta di Ego collettivo, di contro agli «altri», percepiti invece come una minaccia; etica del sacrificio unito alla spirito di rivendicazione; ideologia del rancore che si trasforma in discorso sul riscatto; ritualizzazione delle attività collettive (laddove l’azione politica non implica la riflessione ma l’identificazione); evocazione di una forza superiore in virtù della quale si agirebbe e, soprattutto, molta autoindulgenza. In parole povere, la colpa è sempre degli «altri», di cui ci si sente, pressoché sempre e comunque per definizione, come eterne vittime. L’investitura e rivestitura religiosa di questo atteggiamento – poiché si tratta di un abito mentale più che di una proposta di azione – è immediatamente dietro l’angolo. Così nei molti casi che, a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno accompagnato i rivolgimenti nel mondo musulmano – al riguardo si veda quanto scrive oggi Domenico Quirico, nel suo articolo da Tunisi, su la Stampa – e poi, di riflesso, in alcune vicende che stanno a tutt’oggi interessando anche l’Europa continentale. Benché le analogie tra esperienze occidentali e orientali servano, quanto meno sul piano politologico, a cogliere soprattutto le discontinuità, senza quindi fare di tutta un’erba un fascio, rimane tuttavia una comune matrice, che va identificata nella consunzione delle appartenenze partitiche di massa, nella crisi della politica in quanto veicolo di progetto (trasformatasi oggi in un sistema di gestione “tecnica” del declino) e nelle spinte anti-istituzionali che attraversano le nostre società, laddove queste ultime si sentono sempre meno tutelate e rappresentate da chi le amministra. Da ciò, tra l’altro, la doppia spinta contro l’alto (l’avversione nei confronti delle élites, che paiono distanti e delegittimate a governare) e contro il basso (ossia contro l’underclass dei più poveri, visti come una minaccia al proprio residuo benessere). Ha allora ragione Oliver Roy, sociologo e studioso dell’Islam radicale, quando afferma che i populismi – nel momento in cui si ammantano di motivi religiosi, fondando un circuito identitario basato sull’imprescrittibilità e sulla non negoziabilità di un nucleo di atteggiamenti e credenze che vengono definiti come «valori fondamentali» – si trasformi in un forte competitore delle Chiese e dei culti tradizionali, ai quali, molto spesso in forma paganeggiante e sincretistica, contendeno il primato della rappresentanza morale e il monopolio del discorso pubblico sull’etica. Sempre sul Corriere della Sera, per la firma di Marco Rizzi, si segnala poi l’uscita nell’edizione tradotta in italiano di una biografia del pastore e teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, tra le altre cose animatore, insieme a Karl Barth, della «Chiesa confessante», contrapposta alla nazificazione dei culti operata dal regime di Hitler. La sua esistenza, nel segno dell’opposizione, e la morte per impiccagione, il 9 aprile 1945, testimoniano della presenza di una resistenza civile clandestina che interessò anche una parte, si pure molto minoritaria, della borghesia tedesca. Titti Marrone, per il Mattino, dà invece voce ad Amos Oz, recensendo «Tra amici», la sua ultima opera tradotta in italiano. La riflessione dello scrittore continua nel solco già avviato anni fa con «Una pace perfetta», laddove racconta della vita, sospesa tra afflato morale e ingenuità politica, nei kibbutzim. Autore icona per il mercato italiano, insieme a David Grossman, Abraham Yehoshua e a pochi altri, ha messo in forma letteraria il confronto e lo scontro che già da diverso tempo in Israele si è consumato tra l’utopia collettivista, professata ai tempi dei padri fondatori dello Stato, e l’indirizzo individualista assunto poi nei decenni a noi più prossimi dall’intera società. La ricezione nel nostro paese della sua produzione narrativa ha quindi scontato le identificazioni nostalgiche con un passato che è trascorso ma che ha lasciato una sorta di calco indefinito, che riaffiora costantemente, tanto più nelle suggestioni letterarie. La forza di autori come Oz rimane quella di parlare di altro, ovvero di ognuno di noi, attraverso un’Israele fortemente idealizzata, non tanto nella sua storia politica quanto nell’immagine ricostruita a distanza di tempo. L’idealizzazione, in questo caso, non è il frutto di una qualche manipolazione ma la ricostruzione traslata dei trascorsi, laddove in essi ci si può in qualche modo identificare qui ed ora, proiettando i sentimenti dell’oggi nelle dinamiche del passato. Si tratta, a pieno titolo, di un esercizio di memoria. Tra gli articoli segnaliamo anche quello di Ugo Tramballi su il Sole 24 Ore, dove si parla di Tel Aviv, recensendo il libro a quattro mani di Dan Senor e David Singer intitolato al «Laboratorio Israele». Che l’inquietudine sia uno degli elementi costitutivi del carattere nazionale israeliano è fatto risaputo per chi frequenta quel paese. Di come questa condizione dello spirito, pericolosamente dilacerante se vissuta come passione interiore, sia divenuta un fattore competitivo nella costruzione della nazione, da cent’anni e più a questa parle, può darcene conto solo una lettura non banalizzante del sionismo, quand’esso la sublima sul piano politico, facendo sì che rompa gli argini dell’insoddisfazione personale per divenire potenza collettiva della rivendicazione e della costruzione di un orizzonte condiviso.

Claudio Vercelli