Voci a confronto
Domenica divisa tra le notizie di cronaca, che rimandano ancora una volta alle vicende della lunga e incerta transizione in corso in alcuni paesi arabi, e i commenti di taglio più culturale, essendo questo, insieme al sabato, uno dei due giorni della settimana in cui le maggiori testate escono in edicola con un supplemento letterario. Sul primo versante campeggiano le notizie che arrivano da quella pentola in ebollizione che è l’Egitto, dove sono in corso i ballottaggi per le elezioni presidenziali, con due contendenti in gioco, il “laico” ex Premier Ahmed Shafiq e il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi. Ne parlano molti quotidiani, tra i quali, per la firma di Lorenzo Cremonesi, il Corriere della Sera, ma anche il Messaggero con Azzurra Meringolo, Fabio Scuto su la Repubblica e Francesca Paci per la Stampa. Per la Fratellanza musulmana il verdetto delle urne è chiaro nonché scontato, dichiarando seraficamente a pie’ sospinto che o vince il proprio candidato (dato già al 69% delle preferenze dagli efficienti uomini dell’organizzazione) o si è in presenza di immani brogli. (La seconda cosa, detto per inciso, è ben lontana dall’essere destituita di fondamento: anche per questa ragione, e non solo per la bislacca reiterazione di una verità di parte, gli islamisti sanno di inserire un coltello in una ferita aperta.) In realtà, al di là dell’involontario umorismo di certe affermazioni, che l’aria sia carica di tensioni, pronte prima o poi a detonare, è fatto che gli inviati, così come gli analisti, da tempo denunciano. La scelta operata nei giorni scorsi dalla Corte costituzionale egiziana di sciogliere la Camera bassa del nuovo Parlamento, dichiarando incostituzionale la legge con la quale si era votato, ha fatto montare la voglia di rivalsa di quanti si sono sentiti per tale ragione esclusi, partendo proprio dalle rappresentanze integraliste. Ancora su il Corriere della Sera Franco Venturini riflette, in un editoriale, sulla delicata situazione che ha peraltro obbligato gli elettori egiziani a scegliere tra un uomo legato al vecchio regime e, quindi, all’esercito – garante del dopo Mubarak – e un esponente dei movimenti radicali. Il convincimento che il blocco di potere che si raccoglie intorno alle forze armate va nutrendo è che, posta la gravissima situazione economica in cui versa il paese, e di cui Ugo Tramballi per il Sole 24 Ore ne tratteggia a grandi linee la dimensione altamente problematica, anche nel caso della vittoria di Mohammed Morsi il logoramento al quale il vincitore sarà sottoposto farà sì che si arrivi alle prossime elezioni legislative avendo sfiancato e consumato tutte le chances che gli islamisti hanno coltivato. Tuttavia, benché si stia consumando la partita del reciproco logoramento, dove i militari stanno giocando ripetutamente e con astuzia le loro carte, nulla è ancora detto sugli orizzonti che di qui ai prossimi mesi potrebbero configurarsi per il paese. La minaccia del ricorso alla piazza, evidentemente non in un replay delle proteste spontanee dei mesi trascorsi ma come strumento di pressione degli uni contro gli altri, interessa entrambi i contendenti. Fino a questo momento, malgrado tutto, ciò a cui abbiamo assistito sono ancora punture di spillo, benché dolorose. Ma se i precarissimi equilibri dovessero precipitare, allora lo scontro si farebbe diretto e, quindi, ben più sanguinoso di quanto non sia già stato. Il potenziale di mobilitazione dei Fratelli musulmani rimane elevato, avendo per parte loro mantenuto fino ad oggi un tono calcolato e opportunista di moderazione – anche per tutelarsi dalla insistente, insidiosa e lievitante presenza della salafia, che cerca di strappargli la palma della rappresentanza islamica –, che è però solo un rivestimento nei passi che stanno pesantemente facendo per avvicinarsi legalmente al potere. Nel regno saudita, dopo la morte prematura (!?) del principe ereditario Nayef, a settantacinque anni, è ancora una volta aperta la lotta per la successione. Così Maurizio Molinari su la Stampa, dove offre un veloce ritratto della situazione, ancora in mano al quasi novantenne sovrano Abdullah, lui e gli uomini della sua corte seduti su una stratosferica ricchezza. Il destino della elefantiaca cleptocrazia è, insieme alle dinamiche in corso in Egitto, uno dei fattori a più alta incidenza nel futuro geopolitico del Medio Oriente. In Siria, intanto, la sfortunata missione degli osservatori delle Nazioni Unite, contrastata in tutti i modi possibili, sembra destinata a tramontare. Al riguardo Viviana Mazza su il Corriere della Sera, Alix Van Buren per la Repubblica, Alberto Negri su il Sole 24 Ore, Giordano Stabile per la Stampa, Maurizio Piccirilli su il Tempo ma anche l’articolo, dai toni critici sul modo in cui si fa informazione riguardo a Damasco, di Gianadrea Gaiani per Libero, dove si denuncia l’accettazione supina della propaganda degli insorti, all’opera nell’attribuire la responsabilità di ogni nefandezza al regime di Bashir Assad. Il bilancio di quindici mesi di rivolta, combattuta con le armi in mani, è di più di 15mila deceduti. Anche in questo caso le parti in lotta sanno bene che un ruolo decisivo è giocato dall’informazione, per la quale si svolge una guerra parallela a quella dei mitra e dei tanks. Voltando pagina ci si trova negli inserti culturali, di cui si diceva in esordio. Frediano Sessi, buon conoscitore della storia della Shoah, recensisce per il Corriere della Sera l’edizione italiana del volume di Christopher Hale, «I carnefici stranieri di Hitler», dedicato alla partecipazione – invero in grande numero – di volontari (ma anche di alcuni incorporati a forza) alle divisione di Waffen-SS, le truppe combattenti al comando di Heinrich Himmler. Della dimensione di quei reparti, che arrivano a contare, nel momento di massima espansione, tra il 1943 e il 1945, circa trenta divisioni, già si sapeva. La storiografia in lingua tedesca e inglese hanno dedicato loro numerose monografie, che hanno analizzato il fenomeno della partecipazione alla guerra, e al genocidio, sotto le insegne naziste, di significativi contingenti delle popolazioni maschili dei paesi occupati. La qual cosa, come sottolinea lo stesso recensore, si incarica di smentire la frettolosa, lacunosa e superficiale tesi, ripresa negli ultimi quindici anni da Daniel Goldhagen, di una specificità tedesca nell’attuazione dell’antisemitismo sterminazionista. In altri termini, si trattò per più aspetti di un fenomeno europeo, sotto la stretta direzione nazionalsocialista, avendo ad obiettivo l’intera popolazione ebraica del continente ma soprattutto coinvolgendo, nelle sue abominevoli procedure, ampi settori di non ebrei, chiamati in causa a dare ad esse corpo e sostanza. Non di meno, sotto l’etichetta propagandistica del «Nuovo ordine europeo», vacuo richiamo ad una sorta di solidarietà interetnica tra popoli diversi ma tutti di “razza superiore”, destinati a condividere, dopo la vittoria tedesca della guerra, aspetti del progetto di dominio ariano delle terre conquistate, si celava la mastodontica operazione di ridisegno sociodemografico dell’Oriente euroasiatico. Il nazismo, per più aspetti, si sostanziava in quell’obiettivi e per raggiungerlo doveva imbarcare non solo i tedeschi, così come i cosiddetti «tedeschi etnici», ma anche segmenti di popolazioni non immediatamente ascrivibili all’Heerenvolk, la master-race che avrebbe esercitato una sorta di egemonia incontrastata, di natura neofeudale. Il ruolo delle Waffen-SS, le «SS combattenti», che si affiancavano ai reparti della Wehrmacht, l’esercito regolare, in un rapporto numerico di 1 a 5 o di 1 a 10, nel disegno di Himmler avrebbe dovuto configurare la centralità di una élite che, in tale modo, avrebbe esercitato un predominio anche di ordine politico nelle scelte che il regime andava facendo. Di fatto, quella falsa “interrazzialità” non si tradusse in nulla di più di quanto poteva essere già nelle sue premesse: un inquadramento di “volenterosi combattenti” che si affiancò in diversi casi alle unità combattenti regolari, in altri cercò di influenzare le decisioni dell’Alto comando tedesco (senza riuscirvi) e in altri casi ancora si adoperò, con disinvolta ferocia, nel portare a compito le missioni più efferate, a danno delle popolazioni civili. Tra di essi, affinché non si sia mai troppo autoindulgenti con se stessi, vanno menzionate le cosiddette SS italiane, nate nel novembre del 1943 come brigata combattente e poi trasformata, nel marzo del 1945, nella ventinovesima divisione granatieri delle Waffen-SS, con un organico tra i tredicimila e i quindicimila uomini.
Claudio Vercelli