Un parlamentino degli ebrei…anche se non c’è un regolamento
54 anni, già vicesegretario Ucei dal 1982 al 1987, da sei anni Anselmo Calò ha ricoperto crescenti responsabilità all’interno dell’Unione, prima come assessore al bilancio poi anche come vice presidente. Nessuno sembra conoscere come lui i meccanismi e le dinamiche che guidano l’Ucei. Ha accolto l’invito ad incontrare il direttore e Piero Di Nepi in una tavola rotonda.
G.K. Le elezioni del 10 giugno, effettuate secondo il nuovo Statuto, di sicuro non lasceranno le cose come erano…
A.C. E’ proprio così. Già il fatto che un iscritto alla Comunità di Roma potesse presentarsi a Vercelli, o a Parma; che un ebreo di Modena possa essere nominato rappresentante della Comunità di Merano… queste sono importanti novità.
P.D.N. Tu però non ti sei candidato. Come mai?
A.C. C’è una proposta che mi ha fatto la Comunità di Pisa. La sto valutando.
P.D.N. Definiamo innanzitutto i compiti dell’Ucei.
A.C. La missione dell’Unione è sostanzialmente quella di rappresentare e interpretare gli interessi e le necessità degli ebrei italiani a livello nazionale mentre la quotidianità degli ebrei viene gestita dalle Comunità. L’Unione in teoria non dovrebbe preoccuparsi dei singoli, ma dovrebbe preoccuparsi di rappresentare le loro istanze presso lo Stato a tutti i livelli. In realtà poi però la situazione italiana è tale che soltanto alcune comunità sono pienamente autonome, soltanto alcune sono abbastanza autonome, e probabilmente la metà non lo sono. Una norma dello Statuto prevede che l’Unione faccia un’azione di sussidiarietà. Per cui molta dell’attività dell’Unione non è soltanto rivolta alla rappresentanza pubblica ma è rivolta anche all’interno, garantendo azioni direttamente sul posto, e attività di interesse nazionale per la cultura ebraica.
G.K. Di quante risorse umane dispone l’Ucei?
A.C. Sono probabilmente 30-40 le persone che svolgono un’attività a contratto. La struttura dispone invece di circa 20 persone assunte a tempo indeterminato. Poi c’è il Collegio Rabbinico e il Corso di Laurea che hanno una quindicina di insegnanti, alcuni in comune. L’Unione è divisa in 4 dipartimenti. Il dipartimento per l’assistenza culturale è il DEC guidato dal Rav Roberto Della Rocca, che è quello che organizza il maggior numero di collaboratori che vanno nelle Comunità; c’è poi il DIRE, che è il dipartimento relazioni esterne, il quale si occupa delle relazioni con le istituzioni dello Stato, quando c’è bisogno di prendere contatti, e insomma è il nostro cerimoniale per tutte le occasioni pubbliche. Gestisce anche due momenti importanti di esposizione verso l’esterno dell’ebraismo italiano e cioè il Giorno della Memoria e la Giornata della Cultura. Il dipartimento DESK, poi, è il dipartimento della comunicazione: fa il sito Moked e fa Pagine Ebraiche. E infine, Sorgente di Vita, più legato al DIRE, in quanto strumenti di comunicazione quali Moked e Pagine Ebraiche hanno un target soprattutto ebraico, mentre invece Sorgente di Vita ha un target più verso l’esterno.
P.D.N. Ma insomma questa Unione ha il compito di parlare un po’ con tutti: con le Istituzioni, ma anche con gli ebrei delle singole comunità, anche con un pubblico diversificato di non ebrei.
A.C. Diciamo che noi abbiamo tre sfere: il Paese con cui bisogna parlare, che è la sfera grande; la sfera piccola sono le comunità ebraiche, e c’è una sfera intermedia che sono le persone con cui noi possiamo creare qualcosa di più. Quella che noi abbiamo chiamato community dell’Otto per Mille, facilmente identificabile. Se pensiamo che le scelte a favore dell’ebraismo italiano dell’8×1000 sono poco più di 70.000, mentre gli iscritti alle Comunità ebraiche sono meno di 25.000 (minori compresi), capiamo immediatamente che c’è una comunità di non ebrei che vale il doppio della comunità degli ebrei iscritti.
P.D.N. Tu sei uno degli artefici del nuovo statuto che prevede un ‘parlamentino’ di 52 rappresentanti che nominerà una Giunta di 9. Qualcuno parla di gigantismo che rischia per problemi pratici ed organizzativi di bloccare l’attività del parlamentino.
A.C. Lo Statuto cambiato necessita di un regolamento del Consiglio. Al momento non c’ è non l’abbiamo ancora. Prima avevamo il Congresso, il Consiglio e la Giunta. Il Congresso si riuniva una volta ogni 4 anni, durava 2 giorni e mezzo, doveva eleggere il Consiglio, quindi aveva più o meno un giorno vero di lavoro, era il giorno in cui lavoravano le commissioni, producevano dei documenti. Cioè le mozioni da cui il Consiglio era impegnato per il quadriennio successivo. Nell’ultimo anno del quadriennio normalmente il Consiglio smetteva di fare determinate cose, quasi dicesse: aspettiamo il Congresso. E quindi in realtà il lavoro vero era per tre anni, tre anni e mezzo. Dopodiché anche la mozione fatta quattro anni prima risultava carta straccia, perché il mondo è molto più veloce delle mozioni dell’Unione. Noi avevamo bisogno di un congresso permanente, tant’è che l’ultimo, non quello del 2010, ma quello precedente del 2006, aveva previsto addirittura il recall annuale dei congressisti e con ciò si intendeva garantire una forma di continuità. In realtà poi abbiamo visto che non serviva a niente. E allora questa nuova struttura è una forma di Congresso permanente.
G.K. Ma perché c’è bisogno di un Congresso permanente?
A.C. Perché c’è bisogno di un’elaborazione e di un confronto serrato, specialmente in questi tempi. Faccio un esempio: il Consiglio fatto da 52 persone, 48 voti, si riunisce in una domenica di aprile, per affrontare un certo problema. Dopodiché si riunisce la volta successiva una domenica di settembre. In questo periodo tra aprile e settembre, c’è la possibilità che le commissioni del Consiglio al pari delle Commissioni del Congresso si riuniscano e producano direttamente della documentazione in accordo con la Giunta, quindi dando uno spunto, dando uno sprone alla Giunta sulle cose da fare. Sono quindi le persone esterne alla Giunta, i consiglieri che non fanno parte della Giunta, che prepareranno la documentazione che poi verrà portata in Giunta per discuterla. Questo significa che noi avremo un parlamentino che non si riunirà una volta ogni 4 anni per un giorno ma lavorerà durante tutto l’anno. Questa è la parte principale della novità, ma è tutta da scrivere perché non sta scritta sullo Statuto ma deve essere scritta sul Regolamento. In questo senso vale l’esperienza con la Commissione organizzazione e finanza che ha lavorato e prodotto tantissimo: lo schema di bilancio e le linee guida sulla formazione del bilancio; una possibile riforma dell’8 x 1000; un censimento dei beni immobili delle Comunità.
G.K. Fra i vari compiti dell’Ucei che tu hai citato c’è il rapporto con le Istituzioni e il rapporto con la politica. Tu sollevasti alcuni mesi fa con le tue dimissioni un problema di equilibrio e di interferenza della Comunità di Roma…
A.C. Non vorrei riaprire una diatriba troppo forte…
G.K. Eppure, senza voler riaprire alcuna polemica, è giusto chiarire se vi sono, a tuo giudizio, limiti entro i quali le Comunità devono attenersi nel dialogo con le Istituzioni istituzionali o politiche. Sai bene infatti che la politica aborre il vuoto e se c’è un vuoto esso viene riempito da chi è più bravo…
A.C. La cosa è molto semplice: io ritengo che i rapporti pubblici tra le organizzazioni dello Stato e gli ebrei debbano essere tenuti a livello centrale dall’Unione. Faccio un esempio: chi parla con i ministri è l’Unione, dopodiché a livello locale col presidente della Regione, col presidente della provincia, col sindaco ci parla il presidente della comunità. Io mi ricordo quando lavoravo all’Unione, quando all’Unione stava sotto la tutela ministeriale, per cui qualsiasi cosa doveva fare una Comunità, doveva passare per il Ministero dell’Interno. L’Unione aveva proprio questa funzione e nessuna comunità scriveva al Ministero dell’Interno, bensì tutte le comunità scrivevano all’Unione affinché l’Unione procurasse quello che veniva richiesto al Ministero dell’Interno. Secondo me l’aspetto della rappresentanza non è un fatto bizantino, è qualcosa che tutela tutti, perché se chi è più forte, chi ha una voce più forte, riesce a parlare direttamente con l’interlocutore per ottenere qualcosa, la otterrà solo per sé stesso e potrebbe ottenerla in maniera diversa da come la vedono gli altri. Per cui ora è una questione di uguaglianza che questo passi attraverso un unico organismo. Per cui non è che la Comunità di Roma non deve avere una rete di relazioni, è che la Comunità di Roma deve coordinare questi rapporti con l’Unione.
P.D.N. Uno dei problemi dell’ebraismo italiano, di cui si è cominciato a parlare solo al Congresso di dicembre 2010, è quello della progressiva diminuzione numerica dell’ebraismo italiano. Di fatto, ci stiamo riorganizzando intorno alle due principali Comunità che sono Roma e Milano. Insomma nel 1966, per l’annuario De Agostini eravamo 37.000 e oggi…
A.C. Oggi siamo poco più di 24.000.
P.D.N. Comunque siamo ulteriormente diminuiti e siamo concentrati, brutta parola per gli ebrei, a Roma e a Milano.
A.C. Però negli ultimi tempi la Comunità che ha perso di più è Milano. G.K. Esiste una trasformazione demografica che non può non diventare anche trasformazione nei rapporti con la politica, anche tenuto conto che la maggiore comunità, che raccoglie il 50% del’ebraismo italiano, ha sede nella Capitale.
A.C. Non è che l’Unione non si renda conto di questo fatto, cioè che esistono due centri maggiori e molti centri che si stanno sgretolando, tant’è che nel vecchio Statuto dell’Unione era previsto una norma sul Consorzio di Comunità. E una norma sul Consorzio era prevista anche per il nuovo statuto, ma non è stata voluta dalle piccole comunità. A questo proposito cito una lettera del presidente della Comunità di Ferrara che dice “Lasciateci morire in pace”. E questo dice tutto. Noi assistiamo a un lento declino, alla morte delle comunità piccole e ciononostante esse non vogliono neanche consorziarsi.
P.D.N. Eppure qualcuna sta tentando di reagire.
A.C. Il tempo di percorso (60 km.) tra Mantova e Verona è lo stesso che occorre a Roma da Torrevecchia a Montesacro. Quindi potrebbe essere un’unica comunità, avere un unico rabbino, un’unica struttura. Questo vale ancora di più se pensiamo a Ferrara e Bologna, 40 km, o Pisa e Livorno, 30 km. Questo renderebbe possibile fare delle comunità più forti. Però nessuno è disposto a fare questo, e ognuno vuole conservare la propria specificità.
P.D.N. Magari ci sono anche problemi economici. Alcune comunità hanno un grosso patrimonio…
A.C. I deficit comunitari sono proporzionali alle attività che le comunità fanno. Quindi meno fanno attività meno hanno deficit. Più fai attività, più fai deficit.
G.K. Non è solo un problema di attività ma anche di patrimonio. Piccole comunità, con pochi iscritti e quindi pochi contributi, sopravvivono solo se hanno proprietà. Si racconta di sostanziosi patrimoni….
A.C. Mantova, per esempio, non ha niente. Mantova però ha una entrata importante che è data dagli aiuti che può ricevere da un ente morale che fu creato da un ebreo mantovano a suo tempo, in cui la comunità fu chiamata a base di Statuto a far parte dell’amministrazione. E questo ha fatto sì che questo grande ente che ha tanti soldi, essendoci il presidente della Comunità dentro, devolva a favore della Comunità. Il patrimonio c’è a Ferrara, c’è a Trieste. Il patrimonio di Trieste è molto ben mantenuto. Patrimoni che probabilmente non sono commensurabili dal punto di vista del valore danno risultati di reddito diversissimi. Il patrimonio manotenuto dà un buon reddito, mentre il patrimonio non manotenuto dà redditi scarsi anche se di fronte ha un valore intrinseco molto elevato. Verona ha un grande patrimonio immobiliare molto ben tenuto, molto ben messo a reddito, e chiaramente quando una Comunità ha un reddito elevato per beni immobili può permettersi di non far pagare il contributo agli iscritti. Il patrimonio immobiliare di Roma non è molto inferiore a quello di Verona, l’unica differenza è che Verona deve provvedere a 100 ebrei mentre Roma deve provvedere a più di 10.000, con la scuola, con tutti i servizi che fa.
P.D.N. Comunità diverse con esigenze diverse…
A.C. Nell’Unione delle Comunità contano le Comunità. Abbiamo dovuto dare un peso specifico a ciascuna Comunità e abbiamo fatto bene, ma ciò non riuscirà mai a dire esattamente, a produrre esattamente qual è il peso proporzionale delle teste. Forse avremmo potuto cogliere l’occasione della riforma dello Statuto per dire facciamo l’Unione degli Ebrei. Certamente le Comunità minori sarebbero state contrarie e lo Statuto andava votato a maggioranza.
G.K. Passiamo ad altre questioni. Cominciamo con le politiche svolte a sostegno dei giovani.
A.C. L’attività che l’Unione svolge per i giovani si divide in due sezioni: under 18 e over 18. Per quanto riguarda gli under 18 facciamo attività direttamente nelle Comunità, escludendo Roma e Milano che si autorganizzano secondo quel principio che ho detto prima. Nelle altre cerchiamo di mandare una o due persone per le diverse fasce di età. Si fornisce un minimo di attività ebraica dove non c’è una scuola. Per gli over 18 è soprattutto il finanziamento che si dà ai movimenti giovanili. Si produce della documentazione online, e cerchiamo di organizzare attività. Ma soprattutto cerchiamo di tenerli in contatto attraverso un sistema elettronico. Ora, già a Roma è difficile far frequentare dai nostri ragazzi un’attività ebraica stabile: perché devono andare a nuoto, perché hanno ginnastica, perché hanno un rientro a scuola, ecc. Pensiamo a quanto questo è difficile nelle piccole comunità dove la gente è dispersa.
P.D.N. I giovani perennemente connessi ed essi ci dicono che ormai la vita ebraica si svolge sui blog e sui network…
A.C. Molto. Comunque io non so usare Twitter, vi dico che già gestire le e-mail mi è pesante (ne ricevo oltre cento al giorno con allegati) non so se riuscirei a gestire pure Twitter.
P.D.N. In ogni caso dobbiamo riconoscere che i giovani il dibattito lo fanno lì e su Facebook.
A.C. Questo significa che c’è un problema di comunicazione vera.
G.K. Affrontiamo il tema dei numeri. Il gettito prodotto dall’8×1000 è attorno ai 4 milioni e 600 mila euro. P.D.N. Di che anno parliamo?
A.C. Si parla dell’ultimo 8×1000 ricevuto, posto sul bilancio nel 2010, e riguarda la denuncia dei redditi fatta nel 2008 per i redditi del 2007. G.K. Numeri che ufficialmente l’Unione non diffonda e non pubblica.
A.C. No, sono pubblici.
G.K. Saranno anche pubblici ma solo su richiesta. Stanno sul sito dell’Ucei?
A.C. No, Il bilancio del 2010 è sul sito.
P.D.N. Con quale logica vengono effettuati gli investimenti finanziati con l’8×1000?
A.C. Bisogna preliminarmente detrarre circa 400.000 euro che servono a promuovere e a rendicontare l’8×1000. Restano dunque 4.200.000. Per il 60% vanno direttamente alle Comunità secondo un algoritmo che fu stabilito una quindicina di anni fa e che tiene conto non soltanto della demografia ma anche di altri parametri. Andiamo sull’altro 40%. Per il 10% va a progetti che di volta in volta vengono scelti dal Congresso. Sono stati scelti progetti speciali: la qualità delle scuole, la kasherut, la formazione della leadership ebraica. Dell’altro 30%, il 25% va all’Unione che ci finanzia le attività promosse dall’Unione stessa. La macchina organizzativa in senso stretto, cioè l’amministrazione dell’Unione, però viene finanziata con i mezzi propri dell’Unione che sono per circa 300.000 euro redditi immobiliari e per circa 400/500.000 euro i contributi delle Comunità. Questo è il bilancio dell’Unione più o meno da quando c’è l’8×1000, ed è un bilancio in pareggio. Inoltre sono stati accantonati fondi per gli eventuali interventi straordinari nelle Comunità. Si tratta di circa 700-800.000 euro.
G.K. Qualcuno dice che un bilancio in pareggio non serve a nulla se non ci saranno le prossime generazioni … A.C. Io dico una cosa diversa. Io dico che un bilancio in attivo è un errore dell’amministrazione. Se si parla di una società, un consiglio di amministrazione che porta un bilancio in attivo è un consiglio di amministrazione bravo, ma in un ente come il nostro il consiglio di amministrazione che porta l’utile di bilancio è un consiglio di amministrazione che non è stato capace di investire.
G.K. Mi sembra, detta ora, una affermazione autocritica.
A.C. No, non è affatto un’autocritica. Noi non abbiamo fatto un utile ma abbiamo fatto un pareggio. E abbiamo costituito degli accantonamenti, quando abbiamo visto che c’era la crisi economica e abbiamo pensato che l’8 x 1000 avrebbe avuto una discesa e quindi se volevamo mantenere lo stesso livello di servizi dovevamo mettere dei soldi che avevamo da parte, per continuare a farli. Si tratta di 150.00 mila euro in due anni.
P.D.N. L’Unione finanzia le scuole ebraiche delle comunità?
A.C. No.
G.K. Perché?
A.C. L’Unione finanzia le Comunità, poi le Comunità con i soldi che ricevono fanno quello che vogliono.
P.D.N. Ma l’Ucei come controlla i soldi poi spesi dalle singole Comunità?
A.C. Le Comunità devono semplicemente rendicontare che quei soldi sono stati spesi per fini compatibili con la legge istitutiva dell’8 x 1000.
P.D.N. E verso sé stessa l’Ucei cosa ha fatto?
A.C. Nei 6 anni che sono passati abbiamo riorganizzato l’Ucei attraverso l’immissione di personale giovane ed entusiasta, ragazzi e ragazze che secondo me lavorano non soltanto per lo stipendio ma per la buona volontà di stare all’interno del sistema, portando un entusiasmo che non è misurabile. Questo secondo me lo riscontriamo nel dipartimento della comunicazione, nel dipartimento del DEC, nella segreteria generale che sono sicuramente i nostri punti di maggior forza. Giovani che danno molto di più di quanto dica il loro stipendio. Noi abbiamo riorganizzato la macchina, creato la rete di comunicazione, stabilizzato la comunicazione generale.
G.K. Quindi tutto positivo?
A.C. Quello che ci manca, quello che manca alle Comunità è il rapporto con la rabbanut. Pochissime possono dire che la loro situazione con la rabbanut è perfetta, non voglio far nomi, però la situazione è questa. Bisogna ripensare al rapporto tra il Rav e la sua keillàh e questo va fatto a cominciare dal Collegio Rabbinico che forma i rabbanim. Il problema del rapporto tra keillà e il proprio rabbino è fondamentale. In materia non abbiamo fatto più niente. Si pensi alla kasherut: uno dei progetti speciali su cui l’Unione sta lavorando anche con istituzioni nazionali come il Ministero dello Sviluppo economico e il Ministero dell’Agricoltura è la creazione di un marchio nazionale. Se ne parla da tempo, ma forse siamo sulla buona strada.
P.D.N. Aiuterebbe anche ad abbattere i costi?
A.C. Non so se si abbatterebbero i costi, non so se sarebbe una fonte di reddito, anche se qualcuno pensa di si. Ma la cosa più realistica, è che si otterrebbe un accreditamento della comunità italiana nel mondo. La verità è che noi abbiamo tanti prodotti italiani che girano nel mondo anche col marchio kasher, e che non sono fatti dai Rabbanim italiani.
G.K. A che punto è il progetto di marchio unico kasher?
A.C. Lo stato di questo progetto è abbastanza avanzato per quanto riguarda le discussioni con i Ministeri competenti. Siamo già presenti in un gruppo di studio insieme con gli islamici, in modo da ottenere un marchio che sia al tempo stesso halal e kasher e fatto insieme con il Ministero per lo Sviluppo economico. E tra l’altro il compito del MISE è quello di metterci in contatto con i produttori, e aiutarci successivamente nell’esportazione. Noi abbiamo già conferito un incarico per la costituzione di una società ad hoc, più agile anche in vista della registrazione del marchio. E per la creazione del marchio ci siamo affidati ad un professionista, che ha iniziato ad occuparsene nel mese di aprile.
G.K. Ma il marchio unico non è sufficiente. I prodotti kasher italiani all’estero possono avere mercato solo grazie al prestigio del rabbino che lo garantisce.
A.C. Ecco, il punto di svolta sarà nell’utilizzare un marchio già conosciuto come la famosa “OU”, che ci permetterebbe di arrivare sul mercato con un marchio ben noto. Dunque dobbiamo chiedere all’Ortodox Union di utilizzare i nostri rabbini per garantire il loro standard accettando una loro supervisione si otterrebbe il risultato di mettere i nostri Rabbanim in primo piano e di riconquistare dunque la nostra responsabilità sulla kasherut, a livello nazionale.
G.K. E su questo progetto c’è il consenso dalla rabbanut italiana?
A.C. Su questo progetto c’è il consenso dichiarato della rabbanut italiana. Se poi si riuscirà a fare tutto quello che si vuole fare, non lo so. Mai però come adesso siamo arrivati ad un punto così avanzato per risolvere il problema.
P.D.N. Torniamo alla questione molto seria che hai sollevato, sulla difficoltà del rapporto tra le dirigenze comunitarie e i rabbini…
A.C. No, devi dire tra la collettività, tra la gente e la rabbanut. Non la dirigenza, ma la gente. Il problema del dirigente che dice “quel rabbino mi sta antipatico”, è un falso problema. No, il problema vero è un altro: che tipo di relazione e di rapporto il singolo ebreo di una qualsiasi Comunità riesce ad avere con il proprio Rav? G.K. Come vedi l’Unione fra dieci anni? Ci sarà la strana e paradossale situazione di tanti non ebrei finanziatori con l’8×1000 di una collettività ebraica italiana sempre più ristretta e risicata?
A.C. I non ebrei continueranno a finanziare gli ebrei con l’8×1000 fino a quando si renderanno conto che stanno finanziando qualcosa di vivo, certo non finanzieranno qualcosa di morto. Noi dobbiamo continuare a dare un’immagine di vivacità, se vogliamo l’8×1000. Naturalmente una vivacità positiva come oggi cerchiamo di fare attraverso una comunicazione che si svolge attraverso “Moked” e il mensile dell’Ucei.
G.K. Ma in questo senso, anche ai fini della raccolta dell’8×1000, non si può dimenticare la comunicazione che fanno molte singole Comunità. Ad esse l’Ucei dovrebbe saper dare un riconoscimento in termini non dico economici, ma semplicemente di garanzia per l’esistenza.
A.C. Sì, penso che tu abbia ragione.
A cura di Giacomo Kahn e Piero Di Nepi Shalom, giugno 2012
Non dobbiamo perdere nemmeno un giovane
Con le elezioni del 10 giugno termino il mio incarico istituzionale di Vice Presidente UCEI con la solida certezza di aver capitalizzato quel bene prezioso irrinunciabile che è l’ Ahavat Israel. In questi anni ho assolto il mio compito di assessore ai giovani, alla formazione, agli enti ebraici europei e alle relazioni con lo Stato d’Israele impegnandomi a realizzare progetti con entusiasmo, senza stanchezza o esitazioni. Primo compito dell’UCEI non è soltanto rappresentare l’ebraismo nel contesto italiano, ma trasmetterlo. Questo significa innanzitutto, come diciamo ogni volta che recitiamo lo Shemà, “ripeterlo ai nostri figli”. La nostra identità è trasmissione, passaggio fra le generazioni. I nostri maestri dicono che la prova dell’ebraismo di una persona non va cercata tanto tra i suoi antenati, ma soprattutto fra i suoi discendenti. E’ ebreo, qualcuno ha affermato, chi ha nipoti ebrei. Ma l’ebraismo italiano può oggi essere sicuro di soddisfare questo criterio? Temo proprio di no. Ho sulla mia scrivania una fotografia che mi è cara, rappresenta il bar mitzvà di mio padre: era il settembre del 1945, il Tempio di Torino era stato devastato e molte persone della Comunità deportate e trucidate. Allora le generazioni che mi hanno preceduto sono state forti come non mai, in grado di ripartire; nei volti di quella fotografia si può leggere il dolore profondo del ricordo ma anche e soprattutto la speranza dell’avvenire, la voglia di vivere ebraicamente e di rinnovare la nostra tradizione, insieme, giorno dopo giorno. Non si può essere ebrei da soli, siamo legati da un patto molto più profondo di uno statuto societario. L’UCEI e le comunità non sono solo fornitori di servizi religiosi, ma il quadro in cui si svolgono i momenti fondamentali delle nostre vite: la nascita, la morte, la maggiore età, il matrimonio, le feste. Le comunità sono il nostro mondo ebraico, cui affidiamo il senso concreto della nostra appartenenza al popolo di Israele. Non basta appartenervi, pagare le tasse, portarvi le nostre idee. Bisogna amarle: amare qualcosa o qualcuno vuol dire averne cura, essere disposti e anche contenti di sacrificare qualcosa, saper essere uniti in questo amore. “Chi ha il popolo d’Israele nel cuore deve averlo anche sopra le spalle” come Assessore alla formazione UCEI ho sentito profondamente la responsabilità dell’investimento che sta alla base del corso di formazione YEUD. Sono le fondamenta della casa su cui poggia la vita futura degli ebrei italiani. Esiste un reale problema demografico dell’ebraismo italiano. La chiave sono i giovani, su di loro si gioca il futuro. Dobbiamo evitare di perderne e recuperare i lontani. I giovani ebrei sono nella grande maggioranza simili ai loro coetanei goym, appartengono alla stessa cultura e vogliono le stesse cose. Se ci limitiamo a quelli già religiosi il ridimensionamento sarà velocissimo, dobbiamo lavorare con gli altri. L’idea di fondo è di non perdere neppure una creatura fin dai primi giorni di vita. Qualche tempo fa ho proposto di accogliere i neonati che vengono iscritti alle nostre comunità chiedendo ai genitori di custodire giorno dopo giorno la storia della loro identità di ebrei del futuro. Troppo tardi e con fatica assumiamo informazioni sulle attività collaterali – musica, sport, pittura, teatro – che i piccoli svolgono in età prescolare; si tratta invece di un utilissimo strumento per instillare e plasmare un quid di identità ebraica integrandolo nella vita quotidiana di ogni bimbo. E’ una offerta sartoriale su misura, destinata a tutte le comunità in cui non vi sono asili o scuole ebraiche, un’operazione che gli americani chiamano di marketing mirato, one by one. Paul Ricoeur, grande filosofo francese del ‘900, cattolico, sempre in dialogo con l’ebraismo, ha scritto che l’identità si coniuga in due modi: vi è l’identità “ipse”, per cui una persona o un popolo è proprio quella singola realtà, per esempio noi siamo il popolo delle mitzvot e del monoteismo; ma vi è anche l’identità “idem” per cui ciascuno è erede del suo passato, continua la storia della sua famiglia, della sua vita, dei suoi avi. Da questo punto di vista noi siamo gli eredi: del Sinai e del patto, di mille eroismi e sofferenze. Per essere “ipse”, bisogna essere “idem”, continuare e ricordare. Questo è per me essenziale.
Claudia De Benedetti, Shalom, giugno 2012