Voci a confronto

È morto Yitzhak Shamir, nato Jazernicki, ebreo bielorusso, poi figura storica del sionismo ed esponente di primo piano di quella destra che concorse, in posizione fortemente antagonista, a fondare lo Stato d’Israele. Aveva novantasei anni, gli ultimi sedici trascorsi in una clinica, affetto dall’Alzheimer. Ne parlano, sia pure in maniera molto sintetica, diverse testate, tra le quali il Corriere della Sera, l’Avvenire, il Giornale, il Messaggero. La sua vita è parabola del senso della lotta che si lega al concetto di esistenza, prima ancora che di libertà. Dire che la sua generazione sia stata superata è una pura banalità, del pari al riconoscere che il tempo trascorre. Shamir era consustanziale alle logiche che avevano accompagnato il «campo nazionale», la destra revisionista e poi israeliana, dai tempi pioneristici della formazione dello Stato degli ebrei fino al periodo diplomatico degli anni Novanta. Era secondo solo a Menachem Begin, esponente carismatico dell’Herut e poi del Likud. Non troppo diversamente da quanto hanno conosciuto i suoi storici avversari, le sinistre israeliane, di fatto con la fine degli anni Ottanta, nel mentre era lui medesimo a ricoprire la carica di Primo ministro, si era avviato il declino definitivo dell’approccio politico di cui rimaneva titolare. Nel decennio successivo, nel corso del quale la crisi dei laburisti si sarebbe rivelata in tutte le sue irricomponibili sfaccettature, la vecchia generazione dei padri fondatori dello Stato sarebbe stata definitivamente sostituita, non solo per un ovvio dato anagrafico, da una nuova platea di politici di cui, a destra, Benjamin Netanyahu, assai più gradito a Washington, ne costituisce a tutt’oggi l’esponente più importante. Le vicende mediorientale sono oggi commentate da Eric Salerno, su il Messaggero, da Viviana Mazza per il Corriere della Sera, da Alberto Stabile su la Repubblica, e ancora da Alberto Negri per il Sole 24 Ore e Paolo Nastrolilli su la Stampa. Su queste diverse testate si dà di conto dell’evoluzione della crisi siriana, che vede sempre più partecipi interessati gli Stati confinanti, a partire dalla Turchia e dalla Giordania. Il bilancio di quindicimila vittime è offuscato solo dai pericoli che un focolaio permanente di tensioni costituisce già da adesso per i precarissimi equilibri della regione, laddove molti paesi, a partire dall’Egitto, stanno misurando gli effetti di lungo periodo di ciò che resta della cosiddetta «primavera araba». Al riguardo si possono leggere le considerazioni di Fiamma Nirenstein su il Giornale. Lorenzo Cremonesi, per il Corriere della Sera, resoconta invece dei discorsi di insediamento (alla Suprema corte costituzionale, all’Università cairota, davanti all’esercito) di Mohammed Morsi, il nuovo (e fragile) presidente dell’Egitto, esponenti dei Fratelli musulmani. Per non scontentare nessuno ha detto tutto e nulla, evitando attentamente di citare Israele ma rinviando al rispetto degli accordi internazionali sottoscritti per quello che concerne la sua politica a venire in materia; affermazione, quest’ultima, subito mitigata dal richiamo ai palestinesi e alla necessità di sostenerne le rivendicazioni territoriali. Benché la sua elezione segni una svolta, quanto meno simbolica, siamo molto lontani dal potere ritenere che Morsi possa contare su un adeguato periodo di stabilizzazione. È un sovrano dimezzato, sotto la tutela del potere militare che supplisce, non solo politicamente, agli infiniti problemi che attraversano un paese in forti difficoltà, a partire dal gravissimo stato in cui versa sul piano economico. Il primo segnale che il neopresidente doveva lanciare non era rivolto ai vicini bensì alla popolazione stessa, soprattutto ai copti, in fermento e fortemente preoccupati per l’ascesa di un esponente dell’islamismo. E così è stato, benché esso sia solo un adempimento di quanto espressamente richiestogli.
Claudio Vercelli